Avrete visto un film di fantascienza chiamato Arrival, è l’adattamento cinematografico di un racconto “Storie della tua vita” di Ted Chiang. Lo scrittore prende spunto da una serie di studi nel campo della linguistica, su come un linguaggio dia un’impronta alla struttura del pensiero e del cervello di chi lo adopera. Nel film, l’incontro con degli alieni ed il loro linguaggio, basato su un’espressione non causale e concatenata ma bensì circolare e sincrona, dona la capacità all’interprete di diventare cosciente di eventi del futuro, osservandoli come se stessero avvenendo ora o fossero già avvenuti. La comprensione e l’uso della lingua aliena altera la struttura del pensiero dell’interprete. Se pensate che questa ipotesi sia oltremodo fantasiosa potreste trovare interessante quanto riferito dall’esperta Lera Boroditsky in una Ted Conference dal titolo “how language shapes the way we think”, dove spiega che una tribù aborigena Australiana non adopera i termini destra e sinistra, ma usa, come riferimenti nel dare le direzioni, i punti cardinali, ad esempio se voi state cercando un oggetto all’interno di uno spazio, non vi verrà detto sta alla tua sinistra, ma sta a sud rispetto a dove sei ora. Questo implica che i membri di questa tribù siano costantemente in grado di determinare la posizione dei punti cardinali. Quindi il linguaggio in questo caso non determina solo il loro modo di pensare, ma anche un’abilità, una capacità che ad esempio la maggior parte dell’umanità non adopera o non ha sviluppato.
Cosa questo possa avere a che fare con l’Aikidō è il punto che ci interessa e mi preme illustrare.
Molti inseriscono l’Aikidō nel filone delle arti marziali, non che questo inserimento sia sbagliato, quello che è sbagliato, certamente, è quello che oggi comunemente si accosta al termine arti marziali, vi si racchiude indifferentemente concetti diversi tra loro come: la difesa personale, i sistemi di combattimento, gli sport di combattimento, le tecniche di lotta orientali, etc. Questo termine oggi viene adoperato con un tale grado di confusione che io ormai, per reazione, preferisco adottare il termine Via marziale per indicare una disciplina come l’Aikidō, anche perché mi pare sia una traduzione più fedele, nella lettera e nel significato, del termine giapponese Budō. Se poi consideriamo che dagli scritti di Osensei emerge una netta volontà di dare un nuovo significato al termine Budō, con un un’interpretazione in forte rottura con quelle precedenti, si può capire quanto sia difficile accostare l’Aikidō ad uno stretto insieme di tecniche marziali, mirate all’efficacia sul piano del combattimento. Se avete praticato Aikidō abbastanza a lungo, con uno o più maestri molto bravi, che abbiano adottato un sistema didattico molto chiaro, avrete osservato dei principi logici che governano le tecniche. Ad esempio la necessità di posizionarsi ad un angolo che ci salvaguardi da un secondo attacco concatenato, il porre Uke in uno stato costante di squilibrio, così che il suo sforzo maggiore sia teso a recuperare l’equilibrio invece che a progettare una contromossa che gli permetta di sopraffarvi, a generare una spinta muovendo dal nostro centro di massa gravitazionale così da poter sfruttare la forza peso al massimo contro la forza invece del singolo arto, etc. Tutti questi principi però non sono appartenenti solo all’Aikidō ma a qualsiasi disciplina di origine marziale che ricerchi la massima efficienza ed efficacia. Però prima o poi, spero sinceramente quanto prima possibile, nel vostro apprendimento vi verranno illustrate una serie di possibilità che una volta viste vi appariranno perfettamente logiche ma per cui, riflettendo attentamente, dovrete accettare che da soli non ci sareste arrivati. Il perché è semplice, sono state elaborate in modo naturale ed intuitivo da una persona con un modo di pensare completamente differente dal vostro attuale. Osensei è stato una persona profondamente religiosa, all’interno del sistema di credenze delle religioni giapponesi, e profondamente convinto di essere un tramite tra queste divinità ed il mondo terreno. Era una persona convinta di essere “posseduto” da alcune di queste divinità, e che queste agissero sul piano materiale per suo tramite. Per questo motivo le sue tecniche vengono definite divine, perché espressione di qualcosa di divino che agiva tramite il suo corpo. Sinceramente a noi non interessa sapere se questo fosse possibile, o se avvenisse realmente, o se l’uomo ne fosse solo profondamente convinto, o se gli piacesse solo raccontarlo, ci interessa invece capire come questo abbia plasmato il suo modo di pensare. Provate voi stessi anche solo ad immaginare come affrontereste certe situazioni se invece di essere un uomo foste un dio, non avreste paura, non reagireste in modo animale e conservativo, avreste la capacità di discernere la soluzione ottimale momento per momento senza pressione, non avreste alcun interesse al dovervi imporre, alla prevaricazione. Essere convinti di essere un dio infrange le barriere e le resistenze della reazione animale e della forma gretta del pensiero umano, apre la gabbia della vostra percezione, e vi espone ad un nuovo mondo di possibilità infinite che erano alla vostra portata, che hanno un senso logico, che rispettano le leggi del mondo in cui siamo immersi, ma che normalmente non sfruttiamo perché non le riusciamo a vedere. Osensei ha letteralmente rivisitato il repertorio tecnico delle scuole marziali che ha studiato con una mente calata nel sentire divino. Questo ci riguarda profondamente, perché allora la pratica dell’Aikidō diventa un esercizio, una forgiatura ad un ottica ed un sentire divino, volendo esprimersi in modo più limitato è un esercizio “a giocare ad essere dio”. Tutto questo potrebbe essere solo un esercizio intellettuale ma quello che ho cercato di premettere nello scritto, le conclusioni a cui si stanno spingendo le scienze del linguaggio, neurologiche etc…, suggeriscono il contrario, praticare in un certo modo configura il vostro linguaggio verbale e fisico, il vostro modo di pensare, la struttura del vostro cervello in un modo differente da prima, praticare una tecnica “divina” vi configura come una “creatura divina”. In questo caso non mi riferisco al termine “divino” nel senso religioso del termine, spero riusciate a diventare “piccoli Dei” se vi interessa, ma l’esperienza accumulata finora mi fa dubitare fortemente al riguardo, mi riferisco invece a degli attributi che sono associabili ad una mente divina, il superamento della paura, della preoccupazione, la libertà assoluta etc. Per questo spesso quando sento persone porre al centro della propria ricerca aikidoistica l’efficacia marziale, o il confronto diretto con altre tecniche di combattimento mi convinco profondamente che non abbiano avuto la fortuna di vedere illustrate certe forme, non siano state esposte ad un modo di pensare che trascende il piccolo e limitato mondo della lotta tra due individui. Sul tatami, di fronte alla pressione di un attacco fisico, aggressivo e minaccioso ci viene chiesto di praticare e porsi in un modo che travalichi la reazione primitiva, che salga al vertice delle possibilità dell’uomo, fino al punto in cui l’esercizio e la pratica continui ci alteri, ci trasfiguri. Se la pratica dell’Aikidō si risolve solo al far cadere a terra od incapacitare una persona che vi dà un pugno, allora non verrà avviato alcun processo di sviluppo, della nostra persona, del nostro pensare.
Mi auguro di aver innescato una riflessione sulla vostra pratica, e che come me siate coinvolti in questo divertente ed affascinante “gioco ad essere un dio” .