Giappone 2023, Giorno 4

Oggi è stato l’ultimo giorno dell’orario dalle 11 alle 15, e devo dire che il lavoro è stato molto intenso, ho finito lezione che ero bello cotto. Prima di tutto il maestro ha affrontato il lavoro di morotedori, la presa di due mani ad un braccio, che lui chiede di eseguire portando il gomito in alto e saldando l’avambraccio al petto. È una posizione molto scomoda per Tori, perché Uke è fortissimo e provare a superarlo forzando non porta da nessuna parte. Per riuscire a rompere l’equilibrio bisogna davvero riuscire a rilassare le spalle ma mantenere forte il centro e riposizionarsi rispetto ad Uke. Ho avuto la fortuna di lavorare con Mya, una degli allievi più bravi del maestro Endo, forte in modo intelligente, reattiva ma stabile, è un’occasione di studio importante ogni volta che posso lavorarci insieme. Poi ho lavorato con Anne, finlandese anche lei, e qui è successa una cosa rivelatoria di quanta strada ho ancora da fare su tanti aspetti della mia persona, Anne mi ha corretto al primo tentativo di sbilanciarla: “cerca di rilassare la spalla”. Non conosco il grado di Anne ma una parte del mio Ego è montata su velocissima: “come osa? sono venti minuti che tengo le spalle rilassate, Mya non mi ha detto niente finora!”, per fortuna un’altra parte di me altrettanto velocemente mi ha detto “smetti di fare il coglione, ascoltiamo quello che ci ha detto, fai un controllo di questa spalla stupido!”. E beh aveva ragione Anne, la spalla poteva essere rilassata ancora, e l’effetto sull’equilibrio, o la sua rottura, è stato immediato. Scusa Anne, grazie Anne, sinceramente. Il lavoro con Anne da lì in poi è andato così bene che il maestro ci ha chiesto di continuare a lavorare insieme per un giro davanti a tutti. Quando vieni chiamato fuori davanti agli altri hai sempre la tentazione di aggiustarti perché non sai mai se stai per essere bastonato per aver fatto qualcosa di stupido, quindi mi sono dovuto imporre di continuare a fare quello che stavo facendo senza abbellimenti, in modo sincero, anche se mi fosse costato il momento di gogna pubblica. Dato che il maestro era soddisfatto credo che questa volta fossimo lì come esempio positivo (una volta il maestro Endo a Roma mi chiamò per dimostrare come NON fare la stessa tecnica, non è che si faccia problemi a smontarti). Un’idea che mi ha colpito è stata la spiegazione del perché non si deve battere sul tatami durante la caduta, ho sempre pensato fosse per una questione di rumore, invece la questione è più profonda, quando due persone lavorano studiando con attenzione, osservandosi, generano un’atmosfera “locale” tra di loro, e per somma di tutte quelle delle varie coppie un atmosfera globale. Quasi una bolla di concentrazione, una continuità senza interruzione di energia e movimento, battere sul tatami rompe questa bolla e distrugge questa atmosfera. Un altro concetto interessante è emerso su some conserviamo le informazioni che riceviamo, quando viviamo un’esperienza abbiamo bisogno di un momento perché quell’informazione sia assimilata e conservata, anche per questo è meglio lavorare piano, “è come quando leggete un manga, alla fine della pagina assimilate le informazioni, ed il tempo per girare la pagina vi permette di trattenerle, invece oggi con i telefonini, uno con lo swipe, scorrendo sullo schermo, vede tutto ma non mantiene niente”. Per il fantastico video dello Shinkansen sushi clicca qui
Dopo le onsen, sono uscito a cena con Stella e Craig, questa volta sushi, ed ho scoperto che i kaiten sushi, quei ristoranti dove i piattini giravano sul nastro stanno scomparendo, un po’ complice le nuove tecnologie che potrete ammirare nel video, un po’ per una perdita di quell’estrema educazione che ha caratterizzato i giapponesi a favore della ricerca del gesto sensazionale, e stupido, da caricare sui social!
Questo si un disastro, ma non l’ho combinato io!!

Giappone 2023, Giorno 3

Anche oggi altre quattro robuste ore di lezione del maestro Endo, per fortuna il giro alle Onsen ha aiutato moltissimo per il recupero muscolare. Devo dire che si cade molto facilmente in questa buona routine sonno-colazione-pratica-onsen-cena-sonno e così via, nel breve periodo aiuta perché ti permette di lasciare il resto del mondo fuori e dare il 100% all’Aikidō, ma forse c’è anche il rischio di perdere il contatto con la vita quotidiana vera, mi accorgo infatti di leggere notizie sui giornali italiani su internet e di provare assoluta indifferenza. Comunque per qualche giorno si può. Oggi c’era già più gente sul tatami perché comincia la sequenza di festività che sono il 3-4-5 maggio, e sono il nucleo della golden week, una specie di ponte gigante che i giapponesi usano per fare un po’ di vacanza per una settimana. A parte quei matti degli Aikidoka che invece si dedicano alla pratica. Comunque complice l’arrivo di gente nuova il maestro ha ripetuto molte delle parole che ha detto ieri, ma la cosa non mi stupisce si tratta delle fondamenta del suo lavoro. 自分の経験=jibunnokeiken, la propria esperienza, tutto deve passare attraverso la nostra esperienza personale, per questo è necessario un’osservazione continua di quello che succede nella relazione con il compagno di pratica di momento in momento e perché succede. Anche gli insegnamenti del maestro vanno sperimentati di persona, se restano solo parole ascoltate non servono a niente, quindi ogni lavoro proposto si deve studiare, provare, sperimentare, e sentire, solo allora può essere acquisito. Cosa sentiamo, proviamo noi è il punto fondamentale, e quando sentiamo di essere bloccati dobbiamo essere in grado di cambiare, subito, senza rimanere incastrati, senza cercare di superare la resistenza con la forza scadendo nella rigidità, allora la nostra visione si allarga ed è possibile realizzare tutto il potenziale.
Torno sull’argomento allievi stretti di Endosensei perché mi sembra si ripeta un pattern, cominciano sempre gentili e molto cauti, al punto che ci resti per un attimo male, quasi deluso, poi pian piano che ti conoscono e si fidano si lasciano andare, e da lì comincia la giostra, il movimento varia continuamente, inseguono e sfruttano ogni apertura mantenendo continuamente la connessione. Oggi insieme ad Oiwasensei lavorando Ushirowaza ho passato un quarto d’ora interessante, ho finito che boccheggiavo. Il maestro è pure andato avanti con il lavoro del kodachi, ci ha proposto un paio di variazioni di parata e contrattacco e poi ci ha lasciato lavorare liberi in coppia, sono stato fortunato a poter fare questo giro con Atobesensei, molto studio, tranquillo e con molta attenzione a non farsi male. Poi di nuovo un giro alle onsen ed infine cena in compagnia di Mya e Pasi, finlandesi, Craig, sudafricano, Stella, cinese che vive a Tokyo, Hiro, giapponese che ha vissuto molto tempo in Europa, è il primo giro di ramen di questo viaggio e non era male.
Oggi non ho rischiato disastri, quindi giornata di grande successo.
Ah no, il maestro ha deciso di chiamarmi Marco Polo, non so se la cosa gli resti in memoria più facilmente o semplicemente lo diverta, fatto sta che pronunciando alla giapponese a me suona MarcoPoro, e nella mia mente romana automaticamente nasce il completamento PoroMarco!

Giappone 2023, Giorno 2

Da oggi comincia il seminario del maestro Endo a Saku, sono 5 giorni, i primi tre prevedono una pratica molto intensa, dalle 11 alle 15 con una pausa di trenta minuti a cavallo delle 13 per uno spuntino. Per fortuna dopo essermi svegliato alle tre e mezza di notte sono riuscito a rimediare un altro paio di ore di sonno. Quindi colazione e via ad allenarsi! Non è vero, prima ho appuntamento per incontrare il sindaco di Saku alle 9.15. Scopro che tutti gli stranieri sono riuniti al municipio per una conferenza, con tanto di copertura mediatica, di benvenuto, siamo una trentina tra finlandesi, svedese, canadesi, francesi, sudafricano, cechi, russi, americani e cinese. Ascoltiamo alcune parole di apertura del maestro Endo, ed il benvenuto del sindaco che ci ricorda che è il primo appuntamento internazionale ospitato al nuovo budokan, il bellissimo e nuovissimo centro sportivo dedicato alle arti marziali della prefettura di Nagano. Ci presentiamo uno ad uno e con il mio proverbiale fascino mi guadagno un’intervista personale a fine conferenza, diventerò una celebrità, specialmente per merito delle mie bellissime scarpe!
E poi inforcando la bicicletta finalmente al budokan per la lezione, il posto è bellissimo ed immenso, come al solito si devono lasciare le scarpe e ciabattare ovunque, ricordatevi quando viaggiate in Giappone solo scarpe senza lacci che si possano sfilare e rimettere velocemente!
Il maestro Endo è, contrariamente ai miei peggiori timori, assolutamente in forma, agguerrito più che mai, ci chiede di osservarlo attentamente ma soprattutto di osservarci attentamente, qual è la nostra condizione di momento in momento, perché riusciamo a sbilanciare, o a non sbilanciare, Uke, perché veniamo sbilanciati come Uke, se siamo reattivi, se stiamo usando la forza, se siamo flessibili fisicamente e mentalmente, se siamo pronti a cambiare o se invece restiamo incastrati su una sola idea. Cerca di illustrarci più e più volte il modo più semplice per fare qualcosa, e ci tiene che anche se lo spazio è grande di stargli vicino durante le spiegazioni perché ci sono tanti piccoli dettagli da catturare che sono importanti, come il taisabaki e la gestione della distanza. Una novità assoluta per me è l’uso del kodachi, o wakizashi, la spada corta, per lo studio degli atemi come shomenuchi e yokomenuchi. Una lezione bellissima dove ho modo di ritrovare sul tatami la super squadra degli allievi stretti del maestro, Arigasensei ovviamente, Watanabesensei, Oiwasensei, Arakawasensei, Shimizusensei, tutti molto gentili ma in grado di inserire il turbo una volta che ti inquadrano. E via le quattro ore finiscono lasciandoti ben esercitato nei muscoli delle gambe, ma non è un problema perché è il momento delle Onsen. Pare che tutta Saku sia in felice coesistenza con il vulcano locale ed il nostro albergo ospita le onsen pubbliche, le terme locali, con tanto di acque termali naturali. E via di alternanza fra acqua calda a 40°, sauna ad 85º, acqua fredda a 18º, a ciclo continuo per un’ora e mezza, esco che sono un budino! Un salto al dōjō per consegnare qualche pensiero acquistato in Italia per i maestri si trasforma in un invito a cena ed una splendida serata in bella compagnia, grazie sempre a Miki che interviene traducendo in inglese praticamente sempre. Maledetto giapponese che mi esce solo a singhiozzo.
Tutto bellissimo fino al rientro in albergo a cavallo della bici, devo dare per assodato purtroppo che non ho un buon rapporto con le due ruote, aggiungeteci una pessima visione notturna e Google maps che è entrato in modalità avventurosa, ed ecco che quasi piombo nel fiume della città dopo una bella discesa ad una ventina di km orari. Da dove sia sbucato il fiume non so, all’andata non c’era!
Comunque sopravvivo anche se raddoppio la distanza percorsa rispetto all’andata e finalmente sono pronto per un bel sonno rigeneratore!
Seeeeeeee magari! È l’ora della coinlondery, ovvero del primo lavaggio keikogi alla lavanderia a gettoni e solo dopo a nanna.
Oyasuminasai!
Bonanotte!

Giappone 2023, Giorno 1

Ed eccoci per un’altra cronaca del mio viaggio di studio in Giappone, beh sono passati solo quattro anni dall’ultima, quella del viaggio del 2019 e che ritrovate scorrendo più in basso nel blog. Parlo di viaggio di studio perché è un soggiorno tutto dedicato alla pratica dell’Akidō, ma se non sono tramortito dalle lezioni e mi scappa qualche giretto a Tokyo vi racconterò, però la vedo difficile dato che ho un programma serrato. Questo primo giorno lo volevo chiamare giorno zero perché era incentrato sul viaggio, ma vedremo perché ho cambiato idea alla fine. A proposito del viaggio, quest’anno ho volato con finnair facendo scalo ad Helsinki vanta per poi arrivare a Tokyo haneda, ho risparmiato un po’ sul prezzo del volo che dopo il covid è rincarato parecchio. La seconda tratta è stata molto lunga, tutto compreso lo scalo è arrivato tondo tondo a 19 ore, ma è la traiettoria che mi ha lasciato perplesso, passaggio sopra il polo nord, puntando quasi fino all’Alaska, attraversamento dello stretto di Bering, peccato non fossimo una nave però, e discesa verso il Giappone. Tutto il viaggio sul mare pur di evitare di passare sul territorio della confederazione russa. Quasi 4000 km in più rispetto alla traiettoria ottimale di 10000 km che si poteva fare prima.
Comunque atterraggio ad Haneda alle 14, ritiro del bagaglio e del pocket Wi-Fi, ricompro la carta Pasmo che serve a viaggiare per Tokyo in metropolitana senza diventare pazzi con i bigliettini e salto sulla keiyo Line express, arrivo a Shinagawa station, 5 minuti per comprare il biglietto ferroviario da lì fino a Saku kitanagami, poi una corsa per il locale per la Tokyo station, una super corsa per prendere al volo lo Shinkansen direzione Nagano, e salto al volo sul treno. Mi sento ancora in colpa per avere usato tutto il gaijin power sull’addetto al binario. Il gaijin power è quell’enorme dose di tolleranza che i giapponesi esercitano verso gli stranieri, per cose che non tollererebbero mai se fatte da altri giapponesi. Ad esempio saltare su da una tripla rampa di scale con 25 kili di bagaglio, trovare il treno sul binario, urlare all’addetto che sta dando il comando di chiusura delle porte se il treno va a Saku, non so in quale lingua, probabilmente italiano, e quando quello ti guarda attonito urlargli di nuovo SAKU??? indicando il treno, per poi lanciarsi in un vagone a caso quando quello fa forse un gesto di conferma è un atto piuttosto maleducato, non fossi stato straniero probabilmente sarei stato tirato fuori a forza per attendere il successivo. Perdonami gentile addetto. Comunque tutta questa fretta perché il maestro Ariga mi aveva detto che potevo partecipare alla lezione dalle 19.00 alle 21.00. A Saku daira cambio con il locale, due fermate con i ragazzi del liceo appena usciti da scuola, che mi osservano perplessi, ed eccomi, dopo 24 ore dalla partenza, all’hotel a Saku alle 18.15 dopo aver ritrovato Stella e Hiro. Frullo la valigia e mi ricordo che la bici mi aspetta al dōjō, li mortacci!!! Zaino da allenamento in spalla e a passo di marcia tre km in trenta minuti. Saluti, cambio e prima lezione della mia vita al dōjō di Saku diretta da Arigasensei. Interessantissima, apparentemente di base per la presenza dei kyu ma il maestro riesce a dare informazioni a più livelli, con tanto di suggerimenti per arrivare pronti al seminario del giorno dopo. A fine allenamento prendo possesso della bici, mi muoio di freddo tornando all’hotel, acquisto della cena al combini, ceno e vado in coma.
Insomma se ho già cominciato a fare Aikidō non può essere il giorno zero ma deve essere per forza il giorno 1. Yeahhh!
Tutto bellissimo, a parte quando alle tre e mezza di mattina mi sveglio tutto pimpante nella camera per il jet lag, Noooooooooooo!

Metodo didattico del maestro Fujimoto

Chi ha incontrato il maestro Fujimoto può essere rimasto colpito in particolare dalla sua tecnica, contraddistinta da movimenti ampi, netti, circolari, ed ho sentito spesso persone esaltare la bellezza estetica dei suoi gesti, ma chi ha seguito l’insegnamento del maestro, soprattutto negli ultimi dieci anni di attività, si sarà reso certamente conto che, oltre ad aver affinato il suo metodo di insegnamento, era andato soprattutto definendo un metodo formativo completo rivolto agli insegnanti ed agli allievi. Il maestro ha vissuto in Italia per quarant’anni, dal 1971, ed il suo proposito è stato di contribuire alla costruzione di quel ponte d’argento, evocato dal fondatore dell’Aikidō Morihei Ueshiba in un discorso tenuto per la prima volta fuori dal Giappone alle Hawaii, un ponte che fosse da collegamento tra la cultura giapponese tradizionale espressa nel Budō, la via formativa marziale, con la cultura Occidentale. Sono molti gli insegnanti giapponesi che insegnano ed hanno insegnato fuori dal Giappone, ma sono molti meno quelli che vivendo regolarmente in un paese occidentale hanno anche cercato di adattare il loro metodo di insegnamento agli allievi occidentali senza tuttavia compromettere i valori della cultura giapponese ed orientale. È importante comprendere che il metodo didattico del maestro Fujimoto non è una semplificazione o impoverimento della materia che costituisce l’Aikidō per renderlo più accessibile a tutti, ma un percorso impegnativo che, seguito, porta ad assimilare il pensiero giapponese arricchendo la nostra formazione fisica, culturale e spirituale.

Il legame honbu, Kisshomaru e Moriteru Ueshiba.

Il maestro ha cominciato a praticare Aikidō al club universitario ma ha ricevuto la sua impronta più importante all’hombu dōjō, la sede centrale internazionale di Tōkyō. I suoi principali insegnanti sono stati le colonne portanti di quel periodo che va dagli anni 60 ai primi anni 70, in particolare il doshū Kisshomaru Ueshiba e il dōjōchō Kisaburo Osawa. È in quegli anni che il corpus tecnico e l’insegnamento nell’Aikidō diviene strutturato e si viene a formare una generazione di shihan, maestri da ergersi a modello, che condividono la medesima formazione mantenendo la propria impronta personale. È grazie alla spinta ed al lavoro di quella generazione se l’Aikidō si è diffuso in tutto il mondo senza snaturarsi. Il maestro ha sempre riconosciuto l’hombu dōjō come il centro dell’Aikidō nel mondo, e soprattutto l’importanza del ruolo dell’attuale dōshū, chi custodisce e definisce l’insegnamento fondamentale, Moriteru Ueshiba. Ha anche spesso invitato i suoi allievi a recarsi in Giappone per avere un’esperienza di prima mano della pratica alla scuola centrale.

Gli altri insegnanti importanti

Un insegnante che con il suo metodo moderno ha lasciato un’impronta profonda nel maestro Fujimoto è stato il maestro Koichi Tohei, purtroppo dissidi con l’Aikikai hanno fatto si che Tohei abbia intrapreso un percorso separato dall’Aikikai, va però riconosciuto che la sua capacità pratica e accessibile di trasmettere gli insegnamenti è stata molto formativa per il maestro. Altri maestri importanti durante l’apprendimento in Giappone sono stati Masuda e Yamaguchi, e quando il maestro ha raggiunto l’Italia il maestro Tada.

Programma delle tecniche d’esame del 1975

Nella prima metà degli anni 70, quando il maestro aveva da poco raggiunto l’Italia, i maestri giapponesi residenti in Europa tra cui Tada, Chiba, Asai ed altri si ritrovano per definire una didattica che ponesse le basi anche per gli allievi occidentali, con le loro differenze culturali, di un percorso tecnico chiaro e solido. Ne deriva un programma di esami che è un vero e proprio piano di sviluppo secondo delle linee direttrici essenziali. Quel programma ha segnato, per il maestro Fujimoto, un importante impalcatura su cui strutturare il suo insegnamento.

Punti fissi e requisiti nei gradi di esame

Nel programma di esami le tecniche vengono introdotte grado per grado, progredendo in una scala di complessità via via maggiore, ma sempre come evoluzione progressiva delle tecniche base fondamentali, che i principianti devono studiare e assimilare fin dal primo giorno. È un percorso basato su una logica propedeutica, e per questo, nel momento dell’esame, alcune determinate tecniche sono un requisito fondamentale per dimostrare di stare progredendo correttamente nell’apprendimento dell’Aikidō. Gli esami non sono un’occasione per esibirsi in virtuosismi fini a se stessi, ma segnano sul percorso del praticante l’acquisizione di obiettivi intermedi necessari.

Cinque tecniche fondamentali

Le tecniche fondamentali sono cinque: ikkyō-shihōnage-iriminage-kotegaeshi-kaitennage, legate insieme dal kokyūhō che ne è alla base, ne fa da collante e da raccordo. La varietà degli attacchi a cui rispondere, più o meno elaborati, è solo uno stimolo a confrontarsi con questi cinque principi con punti di vista differenti e nuovi per riuscire a comprenderne l’essenza. Un lavoro di studio impostato su un’esecuzione consapevole anche di uno solo di questi principi offre possibilità di studio così ricche di stimoli da poter essere affrontato all’infinito senza noia.

Struttura ricorrente

Di grado in grado le tecniche più elaborate sono costruite intorno a quanto è stato stabilito nello studio delle tecniche fondamentali precedenti, vengono così introdotti nuovi attributi alla tecnica da affrontare ma allo stesso tempo viene rinforzato un nucleo fondamentale. Questo permette al praticante di organizzare in una struttura solida il proprio apprendimento ed anche di confrontarsi con tecniche che non conosce con un metodo e degli strumenti che può anche applicare da sé. È un punto molto importante, acquisire uno strumento che tramite l’analisi e la sintesi ci permetta di confrontarci con le tecniche nuove, piuttosto che imparare esecuzioni in modo mnemonico e sparso.

Keiko dell’allievo e dell’insegnante

Se nell’allievo il ricorrere di determinati elementi tecnici dona sicurezza e permette di apprendere senza confusione, i benefici per l’insegnante sono anche maggiori. Infatti questa struttura gli permette di organizzare lezioni aperte a tutti, principianti ed avanzati, in modo organico. Può costruire la lezione intorno a dei determinati movimenti che vengono affrontati e riveduti introducendo ogni volta stimoli maggiori e di complessità crescente. Condurre una lezione che risulti stimolante tutto il tempo, ricca di energia, e sia una valvola di sfogo per chi pratica è stata una delle capacità più importanti del maestro. Essere serio e leggero nel momento giusto, sottolineare ed alternare il piano fisico, tecnico e culturale ha trovato un punto di equilibrio soprattutto negli ultimi dieci anni di insegnamento del maestro.

Keiko ed allenamento

La parola keiko, che viene tradotta colloquialmente come allenamento, indica che quando noi compiamo un’attività acquisiamo un’esperienza, e forti di questa esperienza possiamo ripetere quell’attività in modo nuovo e migliore, in un processo continuo di acquisizione di competenza ed affinamento. Ma è anche vero che se la ripetizione continua avviene secondo la stessa modalità il processo diventa potenzialmente noioso, per questo il maestro variava la presentazione e l’esecuzione di una tecnica così che vi fossero sempre stimoli. Ed in particolare approfittando di seminari intensivi di più giorni proponeva anche tecniche molto avanzate, forte che la comprensione da parte dei praticanti di quanto si cerca al livello più alto offra una luce diversa sulle nozioni che si danno per già acquisite. Praticare le tecniche in modo più consapevole, ma anche nuovo, permette di progredire in modo più spedito, agile, e soprattutto divertente.

Uguale e diverso

Quando gli allievi affrontano una nuova tecnica la prima cosa che devono vedere, grazie alla spiegazione dell’insegnante, sono gli elementi comuni con le tecniche più base che hanno già studiato, e poi trovare quelle differenze che una volta risolte nella loro complessità riconducono la tecnica alla forma più conosciuta. Il maestro sottolineava spesso l’importanza di guardare per primo il movimento delle gambe e piedi perché danno lo scheletro del movimento della forma, e poi di osservare il movimento delle braccia e mani che sono peculiari di quella forma, ed infine vedere la tecnica nella sua totalità. È anche compito dell’insegnante non offrire la tecnica in un’unica spiegazione, ma presentarne i dettagli con spiegazioni che si alternano al lasciare lavorare gli allievi, l’insegnante deve essere capace di valutare la capacità e la velocità con cui gli allievi assorbono la proposta tecnica, non serve a niente inondargli di dettagli, come è controproducente tirare dritto come se avessero capito tutto.

Parlare la stessa lingua

Se insegnanti ed allievi lavorano su un programma ben strutturato, dove c’è chiarezza sui fondamenti della pratica e sulle modalità di esecuzione delle basi allora viene a stabilirsi un vero e proprio linguaggio comune con gli insegnanti e gli allievi di altri dojo. Questo permette di lavorare insieme su tatami condivisi, parlando la stessa lingua, e di creare un ampio network di amicizie, di scambi di conoscenza, e di ampliare gli orizzonti dei praticanti, e soprattutto di crescere qualitativamente e quantitativamente. Spendere tempo sul tatami e fuori con persone di provenienza diversa, ma con elementi in comune, fornisce stimoli e motivazione, e crea occasione di incontro ed interesse anche e soprattutto per i praticanti più giovani. Tenere stage condivisi permette agli allievi di lavorare sulle tecniche approcciandole con l’ottica di un insegnante diverso, perché una lingua comune non intende l’appiattimento dell’espressione personale ma avere un terreno comune da condividere.

Aggiornamento delle tecniche

L’organizzazione delle tecniche in una struttura basata su delle esecuzioni di base fondamentali ed un percorso progressivo non vuol dire che le tecniche restino sempre uguali. Prima di tutto perché è possibile migliorare la struttura stessa, cioè l’insegnante può prendere nota di alcune difficoltà che emergono frequentemente nelle tecniche piu avanzate ed anticipare l’introduzione di alcuni movimenti nelle forme base, così che l’allievo arrivi ad affrontare la tecnica avanzata avendo già fatto esperienza dei movimenti necessari. Poi perché un buon lavoro costante, innalzando la qualità media dei praticanti, permette di cominciare a confrontarsi con tecniche più avanzate prima, per esempio il maestro parlava spesso della possibilità di anticipare lo studio delle tecniche di hanmihandachi (dove chi riceve l’attacco è in ginocchio e chi lo porta in piedi, ed è un modo per confrontarsi in una condizione di estremo svantaggio fisico, paragonabile al combattere con un gigante). Non perché si abbia fretta di affrontare un curriculum per concluderlo quanto prima, ma per sviluppare da subito strumenti complementari alla nostra crescita. A questo va aggiunto che l’Aikidō è in rapporto osmotico con la società, e ne assorbe i mutamenti in modo naturale. Il maestro Fujimoto ci spiegava dei cambiamenti, negativi, che aveva riscontrato negli allievi dell’ex stato della Yugoslavia, di come dopo la guerra che aveva diviso il paese la loro pratica fosse diventata dura, e di come questo li avesse condotti lontano dall’idea di pratica che lui proponeva in quel momento.

Kihon come fondamentale, non come semplice

La parola giapponese kihon vuol dire fondamenta, e le tecniche che si affrontano nel 6° e 5° kyū (i due primi esami di Aikidō) sono il kihon dell’Aikidō. È importante aver chiaro che quando si parla di tecniche base non si vuole sostenere che siano semplici o “facili”, ma che sono fondamentali, cioè che, come per una casa, costituiscono la base della costruzione. Il maestro, rianalizzando il percorso progressivo delle tecniche di anno in anno, aveva introdotto nelle forme base una maggiore varietà nei movimenti, considerati necessari più avanti, così che il praticante lavorandoli con più frequenza li assimilasse meglio. Questo legare insieme tecniche base ed avanzate, il loro essere interdipendenti in “entrambi” i versi, è una caratteristica importantissima del metodo didattico del maestro Fujimoto ed ha assunto sempre più carattere negli ultimi anni. Non solo le tecniche avanzate sono costruite come sviluppo delle tecniche base, ma le tecniche base vengono corrette per dare ancora più slancio alle avanzate.

Lavoro di uke

Il progresso nello studio della tecnica non riguarda solo il ruolo di Tori (chi esegue la tecnica) ma in modo eguale anche Uke (chi attacca e poi in modo attivo riceve la tecnica). L’attenzione che il maestro pone sul lavoro di Uke è grandissima, e sotto alcuni punti di vista questo ruolo può essere considerato anche più formativo di quello di Tori. Non si esaurisce con un corretto attacco iniziale, ma continua esercitando una pressione costante su Tori, un movimento flessibile e reattivo. Uke tramite la sua risposta contribuisce a creare una connessione con Tori, è uno stimolo costante e permette alla tecnica di esprimersi fino alla conclusione. Questa risposta attiva aiuta e costringe Tori a restare concentrato in tutta l’esecuzione, e contribuisce allo sviluppo di una sensibilità reciproca nei due ruoli.

Vivo, connesso e sensibile

Se il lavoro di uke viene svolto correttamente allora la tecnica supera la componente strettamente marziale e diventa uno strumento per sviluppare qualità molto più importanti, specie se le vediamo nel contesto moderno. Connessione e sensibilità sono delle parole chiave dell’Aikidō, ma devono avere un’espressione fisica e concreta nella pratica. Lavorando con queste qualità la pratica ci aiuta a sviluppare energia vitale, ad entrare in relazione con l’altro su un piano non esclusivamente verbale ma più profondo e veritiero. Sapere che c’è sensibilità reciproca permette ai praticanti di avere maggiore confidenza e di superare paure e blocchi fisici, e gradualmente di lavorare sui propri limiti, diventandone consapevoli, per riuscire, esplorandoli pienamente, a superarli.

Giovani ed anziani

Il lavoro di uke ha una forte componente fisica, al punto che potremmo quasi dire che buona parte della componente atletica nell’Aikidō del maestro viene sviluppata dal prendere ukemi. È un lavoro che sviluppa la forza in modo sempre associato all’estensione ed alla flessibilità, ed ha come indirizzo l’apertura del corpo, con un forte riflesso anche sul piano mentale. Essere reattivi è legato anche alla capacità di essere ricettivi, morbidi anche mentalmente. È in questo modo che si può fare bene da Uke indipendentemente dall’età, certo i giovani posso e devono dare una risposta impetuosa fisicamente, ma anche per chi è più anziano conta prima di tutto rispondere, accettare il movimento, in un modo più proporzionato ma che può divenire pari a qualunque altro praticante, indipendentemente dall’età, focalizzandosi sulla sensibilità.

Longevità nella pratica

Porre l’attenzione sulla sensibilità reciproca, sulla morbidezza, e sulla ricettività ci permette di lavorare in sicurezza con il nostro compagno, di poterci costruire nel tempo gradualmente sul piano delle tecniche, waza, del movimento del corpo, taisabaki, sul modo fisiologico e corretto di ricevere leve articolari e proiezioni a terra, ukemi. La costruzione di un buon corpo, e il rispetto dello stesso, fosse il nostro o quello del compagno, estendono la longevità della nostra pratica, e questo vuol dire sicuramente progredire, ma anche poter lavorare con chiunque.

Senpai Kohai

Se riusciamo a figurarci la pratica anche come qualcosa che si sviluppa nel tempo, ed è una misura dell’esperienza acquisita, allora possiamo dare il giusto valore ai termini senpai e kohai, tipici della struttura gerarchica della società giapponese, che niente hanno a che vedere con il nonnismo come qualcuno li interpreta a volte. Senpai è chi ha cominciato a praticare prima di noi ed ha un’esperienza e a volte un’età maggiore della nostra, kohai è chi ha cominciato dopo, ha meno esperienza ma spesso anche più freschezza. Non si tratta di una gerarchia di potere, anzi si potrebbe dire il contrario, è una gerarchia di responsabilità. Il senpai ha il dovere di portare su, a traino, i praticanti più giovani, di condividere con loro la sua maggiore esperienza, il kohai deve fornire uno stimolo a continuare a crescere al senpai, perché il suo anelare ad imparare deve dare nuova energia, nuova spinta a chi è più avanti. Questo rapporto diventa una dinamo, dove sia il senpai e il kohai hanno un profitto, non è un’impalcatura di potere ma un movimento.

Uke, partecipe all’insegnamento

Quando un praticante più esperto, un senpai, lavora come uke per noi, allora, deve usare la sua esperienza per indirizzare l’esecuzione della tecnica. Questo non vuol dire che debba parlare, riempiendo lo sventurato di osservazioni, né che debba opporsi alla tecnica fino a quando miracolosamente venga vinta la sua resistenza. Vuol dire che fluendo nella dinamica della tecnica deve rendere il tracciato giusto più agevole. Questo vuol dire che diventa partecipe dell’insegnamento, in modo positivo, senza sostituire l’insegnante. Il maestro invitava continuamente i praticanti nei seminari a mescolarsi tra principianti ed avanzati, anche un avanzato può benissimo guadagnarci praticando con uno meno esperto se si cimenta ad aggirare le rigidità del principiante senza forzarle. Ancora una volta, se riusciamo a superare un’ottica egoista, torniamo al discorso sulla qualità media, al suo alzarsi, tutti, insegnante compreso, riescono a far progredire l’insegnamento.

Imparare come uke

La tecnica di Aikidō è qualcosa che spesso travalica il gesto meccanico che può essere osservato, è certamente molto importante rubare con gli occhi il più possibile, ma, a volte, per capire è necessario sentire la tecnica sul proprio corpo. Allora si può fare esperienza di quelle spinte, squilibri che nel contatto sono evidenti ma che da fuori non sono percepibili, sono sensazioni che ci educano e che trasformano il lavoro di uke in una forma più completa di apprendimento. Questo è di stimolo a lavorare bene come uke, perché migliorare in questo ruolo vuol dire diventare più interessanti per l’insegnante e i senpai, e quindi poter “rubare” ancora di più. Allo stesso tempo l’insegnante e i gradi esperti devono cercare di lavorare con più persone possibili, per lasciare più sensazioni dirette nei vari praticanti.

Ishindeshin

Questo termine nella tradizione buddhista Zen intende quella trasmissione, ai limiti del miracoloso, dell’esperienza del Satori, l’illuminazione, in modo quasi telepatico. Adottato nella cultura comune giapponese indica quel metodo di apprendimento, ad esempio del mondo degli artigiani, diretto, che avviene lavorando spalla a spalla, dove l’apprendimento non è solo verbale, nozionistico, ma soprattutto esperienziale. Riguardando i due aspetti del lavoro di uke, esposti sopra, si capisce bene come questi siano una forma pratica di tale modo di apprendere e di insegnare.

Sedersi avanti

Il maestro sottolineava, in modo molto ironico, che quando c’è una donna molto bella in qualche festa viene subito circondata da corteggiatori e spasimanti. Allo stesso modo se come allievi c’è un autentico interesse verso l’insegnante e la materia, diceva, è naturale sedersi avanti, anche in senso figurato, dove questo vuol dire seguire le spiegazioni con un alto grado di concentrazione. L’allievo deve cambiare il suo modo di pensare che lo spinge a riconoscere e a confrontare ciò che gli viene mostrato con quello che già conosce, deve esserci in quel momento specifico per vedere, sentire e provare quanto gli viene proposto. Per questo è molto importante avere una grande fiducia nell’insegnante, nel senso di essere capace di riconoscere la grande differenza che c’è sul piano dell’esperienza e della tecnica, per riuscire a sospendere il nostro comune senso critico ed essere in grado di accogliere in modo genuino l’insegnamento. Chi insegna non ci ordina cosa dobbiamo fare, ma ci mostra cosa è possibile fare, quali sono le potenzialità inespresse. In questa ottica, perché avvenga la trasmissione ishindeshin, intesa come scambio autentico di informazioni, è necessario che ci sia un moto verso, un anelito, una forma di attrazione magnetica di questo genere.

Ichi-go-ichi-e

La tensione reciproca tra insegnante ed allievo è un requisito necessario nell’insegnamento secondo il maestro, perché porta entrambi a dare il proprio massimo, ad essere aperti a un dialogo autentico che supera qualunque resistenza. L’insegnante condivide tutto quello che sa, l’allievo assorbe tutto quello che può, come una goccia di pioggia che cade e viene assorbita da un terreno arido. Per questo il maestro ricorreva spesso alla massima, sempre di origine buddhista, ichigoichie, che vuol dire che due persone sono consapevoli che si stanno incontrando in quella sola occasione in tutta la loro vita. Quell’unica occasione non può essere sprecata e va vissuta pienamente senza remore. La pratica va svolta con questo spirito, senza risparmiare energie, senza pensare ad un profitto nel futuro, ma essendo presenti uno all’altro con empatia, interesse, e pieno impegno. Ne consegue un ambiente dove spontaneamente emergono serietà e divertimento allo stesso tempo.

Insegnamento e pratica

È facile, normalmente, pensare che l’impegno maggiore spetti agli allievi, ma le considerazioni precedenti dovrebbero portare a una ben diversa conclusione. Prima di tutto l’insegnante di Aikidō, che di solito è anche responsabile di un dōjō ed un esaminatore, non è come un allenatore di calcio, non sta in panchina a dare direttive ai giocatori, è lui stesso un giocatore. Per insegnare Aikidō bisogna avere molta più conoscenza tecnica dei propri allievi, e si deve essere un praticante più esperto dei propri allievi. L’insegnante è un praticante attivo che continua a lavorare come Tori e come Uke, perché non è possibile sostenere la centralità del ruolo di uke in questo metodo se poi chi insegna ha smesso di prendere ukemi. Ancora oggi in molti ricordiamo una sessione di esami yudansha, gradi esperti ed insegnanti, dove il maestro sottolineò il punto mandando a casa buona parte degli esaminati dopo soli cinque minuti perché le loro ukemi erano insoddisfacenti. Riuscire a visualizzare la tecnica con chiarezza non solo nel ruolo dell’esecutore, Tori, ma anche di chi la riceve, Uke, è da considerarsi un requisito necessario per insegnare. Il responsabile di dōjō può essere considerato come il vertice della piramide senpai-kohai, che va ripetuto è una gerarchia basata sull’esperienza e la responsabilità, porta al traino tutti gli allievi, deve essere aggiornato ed avere una visione di quale indirizzo dare alla pratica perché sia solida ed attuale allo stesso tempo.

Insegnanti giovani ed anziani

Se un dōjō o gruppo è ben strutturato è naturale che somigli ad una piramide anche dal punto di vista quantitativo. I gradi più esperti saranno meno dei praticanti del livello precedente e così via, e questo dovrebbe essere naturalmente riflesso anche dall’età dei praticanti. Ci sarà anche una varietà nel corpo insegnante, ed è giusto che tra insegnanti più giovani ed anziani ci sia un approccio differente all’insegnamento. L’insegnante più giovane deve essere energico, proporre tanto lavoro fisico, parlare poco e mostrare molto, cimentarsi con tutti lavorando come tori ed uke il più possibile. Gli insegnanti più anziani devono condividere la loro maggiore esperienza, hanno potuto osservare il responsabile della didattica progredire per più tempo, devono poter fornire quei dettagli necessari ad affinare la tecnica e la pratica. A chi è la guida ultima della didattica spetta il difficile ruolo di coordinare tutte queste necessità, di lavorare sulla base con energia e determinazione, ma allo stesso tempo di affinare il lavoro tecnico, e di saper dare valore agli insegnanti, più anziani e più giovani, formandoli ed attribuendogli responsabilità.

Diventare più raffinato

Le tecniche sono degli strumenti, mediati dalla tradizione marziale, per poter crescere e costruirsi. L’Aikidō è qualcosa che va oltre la singola tecnica, ma allo stesso tempo non può prescindere dalla tecnica per poter essere esplorato. La tecnica è quindi fondamentale ma non deve diventare centrale, immutabile, stantia, è il contrario, la tecnica va sempre più lavorata, raffinata. Il maestro insisteva sempre su questo termine: “lavoriamo un po’ più raffinato”. Ad esempio quando arriva un attacco lineare come può essere uno tsuki, un pugno portato come affondo, le prime volte ci spostiamo dalla linea e pariamo, poi usciamo dalla linea e deviamo e così via fino ad arrivare a riuscire a cambiare la linea dell’attacco spostandoci sempre meno, perché accogliendola al momento giusto, con un timing raffinato, la si può deviare senza resistenza. Bisogna fare attenzione però a non trasformare la raffinatezza in artificio, in vezzo, ed anche il lavoro di uke, affinandosi non deve diventare preordinato, con attenzione non si deve smettere di lavorare in modo basico per conservare la solidità delle proprie fondamenta.

Chiamare

Il maestro aveva adottato questo termine con un’accezione a metà tra l’invitare ed il tirare per indicare il momento che uke, afferrandoci, veniva portato vicino il nostro centro, ed è tutt’ora adottato perché implica che entrambi i praticanti, Tori ed Uke, partecipano all’azione con la loro volontà, come in una conversazione telefonica, rispondendo l’un l’altro. Per questo si devono svolgere esercizi per comprendere come arriva la forza in ingresso, come possono essere katatetori nel lavoro a mani nude o kirikaeshi con il bokken. Si deve capire come allinearsi a quella forza come si fa in tenkanhō, o nella prima fase di suriage e surisage con il ken. Si deve capire come ridirezionare quella forza come si fa in kaiten o in assorbimento, in makiotoshi con il jo o in surisage con il ken. Per poter cambiare la direzione di uke nel momento del primo contatto dobbiamo riuscire a chiamare, ad assorbire Uke, e non è possibile farlo se spingiamo contro, o se respingiamo. Negli ultimi anni l’insegnamento del maestro è stato fortemente improntato a lavorare sull’assorbimento della forza di uke, e sulla fase successiva di reindirizzamento della sua energia. Tutto questo richiede un costante lavoro sulla sensibilità e sul timing e si basa anche sulla ricerca del giusto ritmo dove si esprimono in sintonia Tori ed Uke.

Armi

Nel curricula dello studio delle armi, jo e bokken, ci sono forme da seguire in coppia con il jo e con il ken, che il maestro Fujimoto ha in buona parte mediato dal lavoro del maestro Saito e Tohei, ma ci sono esercizi di base che come sottolineavamo hanno una valenza formativa maggiore. Per il bokken lo studio di shōmenuchi, yokomenuchi, kesagiri , i kirikaeshi, suriage e surisage e per il jo tsuki, jodangaeshi e makiotoshi è fondamentale per riuscire a costruire una corrispondenza con i movimenti a mani nude. Nello studio di questi esercizi di base a coppie è di interesse riuscire a trovare il ritmo giusto con il compagno, non si tratta di scuole tradizionali, orientate alla vittoria sul campo di battaglia e quindi alla tecnica risolutiva, ma di esercizi per trovare sintonia con il compagno, per creare quel contesto che sia sicuro, perché svolto con fiducia nel compagno, ma allo stesso tempo sia “rischioso”, perché la possibilità di essere colpiti da un’arma ci obbliga a restare concentrati ed attenti.

Seminari e pratica

I seminari sono un elemento importante nel metodo del maestro, banalmente perché erano l’occasione di formarsi con lui per chi non poteva praticare al dōjō dell’Aikikai Milano. Ma anche per molti altri motivi, che erano già importanti allora ma oggi hanno acquisito una valenza maggiore. Sono l’occasione per seguire nell’arco di una lezione più lunga ed intensa un filo, uno sviluppo didattico, che ci permette di mettere in collegamento le tecniche, sulla base di un principio, un movimento, un apparentamento. Grazie a questo sviluppo è possibile provare tecniche avanzate, e a volte anche tecniche “rare”, che non sono necessarie, ma sono spesso divertenti e curiose. Sono un’occasione importante per lavorare con gente nuova, che fa bene sia perché lavoriamo con gente diversa, le cui reazioni non conosciamo a memoria, sia perché ci permettere di conoscere persone nuove, stabilire nuove amicizie. Ci costringe a lavorare con più attenzione perché quell’ambiente di fiducia che abbiamo instaurato nel nostro dōjō richiede un grande impegno per essere esteso su un tatami grande e affollato, specialmente se ci sono persone provenienti da culture differenti. Un seminario intensivo può essere l’occasione per provare tecniche nuove, ma allo stesso tempo è sempre necessario rinnovare il lavoro su tecniche che non vanno mai dimenticate, ad esempio il lavoro in suwariwaza, le tecniche eseguite muovendosi in ginocchio, o anche le tecniche in ushirowaza, dove veniamo afferrati da dietro, che hanno un valore maggiore per la valenza costruttiva della pulizia e sensibilità.

Dieci anni

Il maestro diceva che è molto difficile assorbire tutte le tecniche presentate ad un seminario, ma che ogni volta si deve riuscire a portarne almeno una a casa. Le altre tecniche riaffioreranno al momento giusto anche dieci anni dopo. “Un giorno sul tatami mentre provate una tecnica direte Toh! ecco che voleva dire il maestro quel giorno”. Sinceramente a me pare che dieci anni siano il tempo minimo necessario ad inquadrare il lavoro del maestro come un metodo articolato sul piano tecnico e comportamentale. Mi capita spesso di pensare ad una frase apparentemente contraddittoria che gli sentii pronunciare in un seminario, rivolgendosi ad un allievo sotto la trentina che lavorava male, con molta foga, ripetendo la tecnica in modo coatto, gli disse: “tu puoi smettere di fare Aikidō, non capirai mai!”, il giorno seguente durante una spiegazione chiamò fuori un principiante sui sessant’anni, a cui aveva corretto prima la tecnica, e gli disse: “questo signore è un principiante, ora la tecnica non funziona, ma tra dieci anni avrà capito, magari sarà cintura nera. In dieci anni tutti possono capire!”. Per il maestro il modo con cui si praticava era centrale, lavorare in modo disordinato, cercando di arrivare ad una meta senza aver consultato una mappa e segnato un tracciato è inutile, percorrere invece un sentiero ben definito, segnato dal proprio maestro, anche lentamente ci porta infine alla meta.

Aikidō come forma culturale

Questo metodo, che il maestro ha proposto, è il frutto della cultura giapponese che il maestro ha cercato di diffondere. Ricevere l’insegnamento non dissezionando ed analizzando, ma assimilandolo nella pratica, l’idea di una ricerca di sintonia di gruppo tramite il sacrificio dell’ego e l’affermazione di un linguaggio comune, uno standard, affrontare prima l’aspetto esteriore di quanto proposto ed infine poterne condividere la materia più profonda, il passaggio dall’esterno, soto, all’interno, uchi, il rispetto e l’etichetta, rei, sono le radici della cultura giapponese. È importante però che questo aspetto culturale non venga affrontato sul piano intellettuale, per essere riduttivi in modo scolastico, ma che venga interiorizzato sul piano fisico, nella pratica.

Il metodo del maestro come educazione della persona

La mia interpretazione è che il metodo del maestro Fujimoto sia ancora malamente inquadrato come qualcosa di prettamente tecnico, o ancora più superficialmente apprezzato per la sua valenza estetica. Certo, la tecnica ne è una componente fondamentale, ma non tanto per il dettaglio quanto perché è strutturata, ed organizzata. E certamente i movimenti del maestro, nella loro ampiezza, pulizia, circolarità possono risultare belli, a seconda dei gusti per qualcuno di più, per altri meno. Ma, credo, che debba essere inquadrato prima di tutto come un metodo di lavoro e di relazione tra due persone. Un metodo che fa si che si stabilisca un ambiente dove c’è sicurezza ed allo stesso tempo ci sia la possibilità di sospingersi oltre e di esplorare aspetti della pratica più rischiosi. Lavorare con flessibilità, fisica e mentale, rispondere costantemente all’altro in modo che non sia mai “senso unico”, essere rispettosi dell’integrità fisica dell’altro e propria, mettersi pienamente a disposizione senza riserve, avere e dare fiducia al compagno, essere concentrati e presenti, sono gli elementi centrali. Questi elementi si completano con la fiducia nell’ insegnamento, che vuol dire sia fiducia nell’insegnante, sia nel lavoro che propone, perché nel tempo, a lungo andare, ci formano e costruiscono fino a permetterci, ad un certo punto, di poter camminare anche da soli, su tatami diversi, con insegnanti con metodi e tecniche diverse senza difficoltà ad adattarci.

Shizentai

Questo termine semplice, composto dalla parola natura e corpo, intende la capacità di muoversi in sintonia con la natura, in modo naturale. Io credo che il metodo del maestro, in accordo con il pensiero giapponese, sia teso proprio ad unire il percorso verso la meta con la meta stessa. Le qualità che costituiscono l’Aikidō del maestro Fujimoto sono le stesse qualità che dobbiamo usare, acquisendole gradualmente nella pratica, nello studio. Si tratta infine di un processo che aumenta se stesso, muoversi in modo naturale per diventare ed essere naturali.

L’Aikidō come trasformazione

Avrete visto un film di fantascienza chiamato Arrival, è l’adattamento cinematografico di un racconto “Storie della tua vita” di Ted Chiang. Lo scrittore prende spunto da una serie di studi nel campo della linguistica, su come un linguaggio dia un’impronta alla struttura del pensiero e del cervello di chi lo adopera. Nel film, l’incontro con degli alieni ed il loro linguaggio, basato su un’espressione non causale e concatenata ma bensì circolare e sincrona, dona la capacità all’interprete di diventare cosciente di eventi del futuro, osservandoli come se stessero avvenendo ora o fossero già avvenuti. La comprensione e l’uso della lingua aliena altera la struttura del pensiero dell’interprete. Se pensate che questa ipotesi sia oltremodo fantasiosa potreste trovare interessante quanto riferito dall’esperta Lera Boroditsky in una Ted Conference dal titolo “how language shapes the way we think”, dove spiega che una tribù aborigena Australiana non adopera i termini destra e sinistra, ma usa, come riferimenti nel dare le direzioni, i punti cardinali, ad esempio se voi state cercando un oggetto all’interno di uno spazio, non vi verrà detto sta alla tua sinistra, ma sta a sud rispetto a dove sei ora. Questo implica che i membri di questa tribù siano costantemente in grado di determinare la posizione dei punti cardinali. Quindi il linguaggio in questo caso non determina solo il loro modo di pensare, ma anche un’abilità, una capacità che ad esempio la maggior parte dell’umanità non adopera o non ha sviluppato.
Cosa questo possa avere a che fare con l’Aikidō è il punto che ci interessa e mi preme illustrare.
Molti inseriscono l’Aikidō nel filone delle arti marziali, non che questo inserimento sia sbagliato, quello che è sbagliato, certamente, è quello che oggi comunemente si accosta al termine arti marziali, vi si racchiude indifferentemente concetti diversi tra loro come: la difesa personale, i sistemi di combattimento, gli sport di combattimento, le tecniche di lotta orientali, etc. Questo termine oggi viene adoperato con un tale grado di confusione che io ormai, per reazione, preferisco adottare il termine Via marziale per indicare una disciplina come l’Aikidō, anche perché mi pare sia una traduzione più fedele, nella lettera e nel significato, del termine giapponese Budō. Se poi consideriamo che dagli scritti di Osensei emerge una netta volontà di dare un nuovo significato al termine Budō, con un un’interpretazione in forte rottura con quelle precedenti, si può capire quanto sia difficile accostare l’Aikidō ad uno stretto insieme di tecniche marziali, mirate all’efficacia sul piano del combattimento. Se avete praticato Aikidō abbastanza a lungo, con uno o più maestri molto bravi, che abbiano adottato un sistema didattico molto chiaro, avrete osservato dei principi logici che governano le tecniche. Ad esempio la necessità di posizionarsi ad un angolo che ci salvaguardi da un secondo attacco concatenato, il porre Uke in uno stato costante di squilibrio, così che il suo sforzo maggiore sia teso a recuperare l’equilibrio invece che a progettare una contromossa che gli permetta di sopraffarvi, a generare una spinta muovendo dal nostro centro di massa gravitazionale così da poter sfruttare la forza peso al massimo contro la forza invece del singolo arto, etc. Tutti questi principi però non sono appartenenti solo all’Aikidō ma a qualsiasi disciplina di origine marziale che ricerchi la massima efficienza ed efficacia. Però prima o poi, spero sinceramente quanto prima possibile, nel vostro apprendimento vi verranno illustrate una serie di possibilità che una volta viste vi appariranno perfettamente logiche ma per cui, riflettendo attentamente, dovrete accettare che da soli non ci sareste arrivati. Il perché è semplice, sono state elaborate in modo naturale ed intuitivo da una persona con un modo di pensare completamente differente dal vostro attuale. Osensei è stato una persona profondamente religiosa, all’interno del sistema di credenze delle religioni giapponesi, e profondamente convinto di essere un tramite tra queste divinità ed il mondo terreno. Era una persona convinta di essere “posseduto” da alcune di queste divinità, e che queste agissero sul piano materiale per suo tramite. Per questo motivo le sue tecniche vengono definite divine, perché espressione di qualcosa di divino che agiva tramite il suo corpo. Sinceramente a noi non interessa sapere se questo fosse possibile, o se avvenisse realmente, o se l’uomo ne fosse solo profondamente convinto, o se gli piacesse solo raccontarlo, ci interessa invece capire come questo abbia plasmato il suo modo di pensare. Provate voi stessi anche solo ad immaginare come affrontereste certe situazioni se invece di essere un uomo foste un dio, non avreste paura, non reagireste in modo animale e conservativo, avreste la capacità di discernere la soluzione ottimale momento per momento senza pressione, non avreste alcun interesse al dovervi imporre, alla prevaricazione. Essere convinti di essere un dio infrange le barriere e le resistenze della reazione animale e della forma gretta del pensiero umano, apre la gabbia della vostra percezione, e vi espone ad un nuovo mondo di possibilità infinite che erano alla vostra portata, che hanno un senso logico, che rispettano le leggi del mondo in cui siamo immersi, ma che normalmente non sfruttiamo perché non le riusciamo a vedere. Osensei ha letteralmente rivisitato il repertorio tecnico delle scuole marziali che ha studiato con una mente calata nel sentire divino. Questo ci riguarda profondamente, perché allora la pratica dell’Aikidō diventa un esercizio, una forgiatura ad un ottica ed un sentire divino, volendo esprimersi in modo più limitato è un esercizio “a giocare ad essere dio”. Tutto questo potrebbe essere solo un esercizio intellettuale ma quello che ho cercato di premettere nello scritto, le conclusioni a cui si stanno spingendo le scienze del linguaggio, neurologiche etc…, suggeriscono il contrario, praticare in un certo modo configura il vostro linguaggio verbale e fisico, il vostro modo di pensare, la struttura del vostro cervello in un modo differente da prima, praticare una tecnica “divina” vi configura come una “creatura divina”. In questo caso non mi riferisco al termine “divino” nel senso religioso del termine, spero riusciate a diventare “piccoli Dei” se vi interessa, ma l’esperienza accumulata finora mi fa dubitare fortemente al riguardo, mi riferisco invece a degli attributi che sono associabili ad una mente divina, il superamento della paura, della preoccupazione, la libertà assoluta etc. Per questo spesso quando sento persone porre al centro della propria ricerca aikidoistica l’efficacia marziale, o il confronto diretto con altre tecniche di combattimento mi convinco profondamente che non abbiano avuto la fortuna di vedere illustrate certe forme, non siano state esposte ad un modo di pensare che trascende il piccolo e limitato mondo della lotta tra due individui. Sul tatami, di fronte alla pressione di un attacco fisico, aggressivo e minaccioso ci viene chiesto di praticare e porsi in un modo che travalichi la reazione primitiva, che salga al vertice delle possibilità dell’uomo, fino al punto in cui l’esercizio e la pratica continui ci alteri, ci trasfiguri. Se la pratica dell’Aikidō si risolve solo al far cadere a terra od incapacitare una persona che vi dà un pugno, allora non verrà avviato alcun processo di sviluppo, della nostra persona, del nostro pensare.
Mi auguro di aver innescato una riflessione sulla vostra pratica, e che come me siate coinvolti in questo divertente ed affascinante “gioco ad essere un dio” .

Giappone e Aikidō 2.0: il lungo giorno 0


Questa volta sono tornato in Giappone scommettendo su una stagione ed un clima nettamente migliori. La mia prima esperienza a Tokyo gli ultimi giorni di agosto era stata ai limiti dell’insostenibile. Dopo un luglio a riposo forzato, il caldo sostenuto e l’umidità altissima, la pratica all’hombu dojo era stata molto difficoltosa, e meno godibile di quanto avessi sperato. Questa volta ho puntato alla fine di aprile e prima metà del mese di maggio, unici inconvenienti evitare il fermo delle attività legato alla golden week e il sovraffollamento dell’hombu dovuto al richiamo dell’imminente All Japan Demonstration. Quindi con un quasi perfetto incastro, si è partiti il 27 aprile per godersi tre giorni a Kyoto da turisti (sono accompagnato da Roberto e Giancarlo), purtroppo il dojo di Okamotosensei era chiuso, e poi spostarsi dall’1 al 5 a Saku per lo stage di Endosensei. Dal 6 a Tokyo per altri 9 giorni di pratica all’hombu dojo fino al rientro in Italia del 15, tenendosi lontani dall’All Japan enbu del 27.
I tre giorni a Kyoto sono stati magnifici ed impegnativi. Rivedere il Kiyomizudera (il tempio con una stupenda terrazza che si affaccia sul fianco della montagna e offre una vista bellissima), il Kinkakuji (noto come il padiglione d’oro), i bellissimi giardini Zen di pietra dei templi Daiseiin e Zuihouin nel complesso del Daitokuji e del Ryoanji, e la natura racchiusa nel tempio del Ginkakuji, è stata un’esperienza bellissima e profonda. Arricchita dalle osservazioni di Roberto, bonsaista amatoriale, su come vengano curate alberi e piante in questi giardini apparentemente naturali ma armoniosamente controllati dall’uomo. Domani mattina si parte presto per Saku, vicino Nagano e dalle 11 tutte le nostre energie saranno spese sul tatami sotto la guida del maestro Endo.
Vi tengo aggiornati
Ciao Marco

Il metodo nell’Aikidō

La mia idea di pratica secondo un metodo nell’Aikidō è stata profondamente influenzata dall’incontro con il maestro Fujimoto e la sua didattica. Ho cominciato a praticare nel 1995 e nel ‘99-2000 ho frequentato il mio primo stage con il maestro Fujimoto, il mio insegnante di allora spingeva molto perché mi avvicinassi al suo lavoro, ma sinceramente, da quelle poche occasioni di un fine settimana, non restai molto impressionato, dal punto di vista dell’eccezionalità tecnica ero molto più sorpreso dal maestro Hosokawa. Poi nel 2001 per sostenere l’esame di shodan frequentai i 5 giorni dello stage di fine dicembre a Milano e per me si aprì un mondo. Il maestro Fujimoto in nove lezioni dispiegò un sistema tecnico estremamente chiaro, e soprattutto organizzato. Le tecniche venivano costruite in modo progressivo dagli attacchi più di base a quelli più elaborati, imperniate su dei movimenti fondamentali del corpo che si ripetevano nella stessa tecnica. Un movimento caratterizzava le forme omote, oppure la conclusione di tutte le tecniche di proiezione, un altro movimento le forme ura. Le forme di nikyō, sankyō, yonkyō potevano essere tutte costruite sulla base di ikkyō e questo a sua volta essere caratterizzato dall’iniziare da un rapporto aihanmi o gyakuhanmi delle posizioni reciproche. Il maestro aveva impostato una struttura ben organizzata di tecniche caratterizzata da movimenti ricorrenti e da dettagli e variazioni che si aggiungevano nella progressione, ma questo era solo il 50% del valore del suo lavoro. L’altra qualità del maestro era come veniva presentata la sua organizzazione tecnica, in ogni seminario il maestro seguiva un filo logico, impostandolo su un movimento od un uscita specifica, presentandola e sviluppandola, poi lasciandola per impostare un secondo lavoro particolare e infine riprendendola intrecciando insieme i due lavori. Questo modo di presentare un aspetto specifico di tutta la struttura dava una grande fluidità al lavoro svolto sul tatami, e ci si trovava a partire da un katatetori aihanmi e a finire in munetori menuchi anche se il gruppo di praticanti era molto eterogeneo nel grado e nelle capacità. Inoltre anche lavori soggetti ad essere ripetuti più volte venivano presentati sotto una luce differente in modo da restare sempre interessanti. Queste qualità diventavano manifeste sui tatami di Milano e Laces, in particolare proprio nell’Aikidō dei partecipanti allo stage. Potevi lavorare con dieci persone differenti in una lezione e riuscire a partire da un linguaggio comune con tutte e dieci, e all’interno di questo linguaggio concentrarti sulla particolare espressione proposta in quel momento. Avere un “sistema” non vuol dire però creare una struttura granitica, soggetta alla ripetizione e alla monotonia. Il maestro Fujimoto nei suoi quasi 40 e passa anni di insegnamento ha conosciuto una costante evoluzione tecnica, e a mio parere strettamente personale specialmente negli ultimi 10 anni questa evoluzione aveva una profonda connotazione didattica. Le tecniche del sesto e quinto kyū venivano a modificarsi per creare una base ed introduzione a tecniche molto più complesse che le avrebbero riprese più avanti, tecniche avanzate venivano semplificate per presentare solo le differenze necessarie rispetto ai moduli di base.
I quattro elementi che caratterizzavano il metodo del maestro in sintesi erano: struttura organizzata e logica delle tecniche, capacità di presentare tale organizzazione sottolineando un particolare filo logico, costruire una comunità che condivide un linguaggio universale, revisionare il lavoro tecnico evolvendolo in senso pratico e funzionale.
Questi elementi secondo me non connotano esclusivamente il lavoro del maestro Fujimoto ma caratterizzano un vero approccio moderno nel metodo ad una disciplina di natura tradizionale.
Il mio desiderio è che l’Aikidō che perseguo, degli insegnanti che prendo come riferimento, e che condivido con i miei amici ed allievi rispetti i requisiti di questo metodo.
Potrebbe interessarvi una serie di appunti che sto raccogliendo in questa sezione del sito.

To lose or to win by a real sword

Shinkenshōbu
真剣勝負

The word by word translation of theese japanese four kanji is: real-sword-victory-defeat, put simply to win or to lose by a real sword. Real sword means a blade that can actually cut, not just a iaito (a replica of a sword with no cutting edge that is used in training kenjutsu), a sword that can strike a fatal blow. The meaning of this saying is “fighting for your life (or death)”, and it implies the danger is so great that in the end you can loose your life for real, no playing, be aware and act accordingly.
Osensei wrote that in true Budō, and Aikidō is the ultimate manifestation of Budō, there is no kind of competition, above all no sportlike competition, because of its true nature which is shinkenshōbu.
Any kind of sport contest, even the more gory ones like some mma fighting, must obey to some rules so that to have at least some kind safety standard, this way the lives of the contestants are guaranteed. But this thinking is just the opposite of shinkenshōbu. The wide of this gap is properly true to me, but for the people who trains any kind of martial sport, or shallowly dip in the self defence study, there’s not such clear understanding.
Shinkenshōbu means that any action is allowed, it has only to be weighted on the scale of reaching life and escaping death, it doesn’t have to answer to a set of established rules or any kind of referee ruling. A sportlike contest has no common ground with this way of thinking, and according to Osensei doesn’t belong to the Budō sphere, or to the so often ill-labelled martial arts.
The fans and the ones practicing fighting sports believe that this kind of contest is the most truly realistic, the violence showing, the strenuous effort needed, the high percentage of serious damage may be true but if first of all you are preventing any chance of dying, or you are trying to prevent it, what is the true nature of this kind of contest? If you fight to survive, but remove any chance of dying, you are just playing a game, dangerous, violent, bloody but still nothing more of a game.
I’ll try giving some evidence of this, let’s look at strikes to the back. There’s no fighting sports where striking the back of the head or neck from the back is allowed. If you wilfully strike at the nape you’ll get immediately disqualified. Because of this, techniques of leg swiping and fight to the ground are getting such relevance. But, when a fighter dives trying leg swiping with both his arms, he really exposes his neck to a permanently disabling elbow strike. An elbow strike of this kind is not allowed, it’s too dangerous, and leg swiping must be stopped with techniques that are not so effective, so that leg swiping and ground fighting are at such a high popularity.
Always because of a permanent disabling effect eye gouging, trachea grabbing, striking to testicles, finger locks, and many others moves are not allowed. Because of this to build a muscle armour in fighting sport has such importance, and brought forward weight classes and such nonsense. In what kind of fighting, that wishes to have a realistic approach, can exist weight classes? Can you imagine warrior asking to each other how many kilos is their weight on a battle ground? Nature is true evidence that such way of discrimination in fighting for survival has no meaning, the opposite is true.
I’m not pushing forward the idea that Aikidō is more realistic than fighting sports, it has its own flawed way of translating reality to a schematic pattern, with his striking molded on vectors, his absorbing techniques and continuous pressure that are expression of a dilated time perception that goes with study in sensitivity. But I think that his adhering to the shinkenshōbu principle is something which get always neglected by people of fighting sports.
Every technique of Aikidō happens when uke, the one who attacks, is able to survive the most immediate counterattack: atemi, the striking to vulnerable spot of the body, and the no turning back unbalancing of a kokyūnage. If uke goes quite unscathed over this answer Tori will have to exercise his control using a waza, an Aikidō technique.
A deep understanding of this may happen if we look at the kind of fighting that was taking place on the battleground of past wars, with the protection of heavy armours one was quite immune to empty handed strikes, and tried to avoid at all cost to fall to the ground in the middle of a melee, he would rather try moving from an unbalanced condition to the next to get back his grounding.
The shinkenshōbu principle, in Aikidō, allows strikes of any kind, no limitations at all, and “fighters” takes this in account. If you are an Aikidōka, and you let yourself be touched on your face, quarrelling whether the strike was strong enough to knock us out or not is meaningless, you must be aware that you could have lost your sight and got unable to go on. No referee is giving you a break if you let your nuts be stricken. No one is getting disqualified if he is so good to strike on your back. Because of this a really different way to answer to strikes and menaces comes forward. Awareness of not exposing your body in any way will have you choose unbalanced movement over any kind of parring or closed guard. To defend your central line and axis is the first product of this way of thinking, and if you cannot embrace this way of looking at a fight you have no chance of understanding.
If you truly would like to understand the course of action, and reaction, of an Aikidōka try visualising your enemy armed with a long and sharp knife, how much strength is needed in one blow to cut an artery?
See, we are back to shinkenshōbu, fighting with a real sword.
When you look at Budō the same way you look at sport fighting you are prey to the same mistake again and again, the method of learning, exercising follows a different path, which is not in any way equivalent.
Just for sport let’s try pretending being Usain Bolt, the fastest man on earth. You are able to move in a highly organised way, efficient and perfectly harmonious in a specific setting like a track. If someone showed you a video of an Eskimo, walking in his snowshoes, swaying like a penguin, would you be able to consider the effect of the snow on movement? Are you able to differentiate between the game of running on a track and having to move surviving in harsh conditions?
In Aikidō both Tori and Uke must answer the shinkenshōbu principle. Tori must evade the first strike and allow for musubi, the connection, to happen. There he can perceive clearly the center and central axis of Uke, so that he can exercise his control all along the execution of the technique to the end without giving up new openings to the blade of the attacker. Uke, after trying his first sincere strike, must keep on being aggressive in his connection, always being aware as much as possible to avoid any immediate sanctions.
This word “connection” frequently used in Aikidō is equivalent to being aware on many different levels, body, will, mind, breath and so on. If you cannot grasp the underlying of shinkenshōbu you’ll be just the same as someone looking the erratic movement of a man without knowing he is a prey to a sniper.
Shinkenshōbu way of thinking gives our daily practice a deeper meaning, it’s the fertile soil to a spiritual tension, it asks for absolute concentration, takes away anything that doesn’t belong to the moment and brings you to the present. This way the daily training of Aikidō is no more a playful practice, silence comes to you, and you have no way to keep pretending to be the someoneelse that you show in the face of society, you are your true self.