About mark

Marco D'Amico (1976) inizia a praticare aikido nell'ottobre del 1995, presso il Seiki dojo a Roma, con il maestro Franco Martufi (V dan aikikai). Nel 1997 segue per un anno le lezioni presso il dojo centrale tenute da Alberto Anzellotti (V dan aikikai). Nel 1998 torna a praticare al seiki dojo passato nelle mani di Adriano Olmelli (IV dan aikikai), ed

Giappone 2.0 e Aikidō: giorno 9 e 10

Sto un po’ rimanendo indietro con il diario di viaggio e pratica ma l’intensità degli allenamenti costringe davvero a riposare ogni volta che puoi. Anche se le lezioni sono di un’ora il ritmo è sempre molto alto, perché le spiegazioni sono ridotte all’osso, il taisō (la ginnastica) non supera i primi 4 minuti della lezione, il che richiede a me che sono un vero e proprio diesel di arrivare almeno venti minuti prima e fare riscaldamento per conto mio, come fanno molto altri. Poi a parte eccezioni nel corso di un’ora non si cambia uke, quindi se ci si è trovati con una macchina da guerra sapete già che non ci saranno pause. Comunque la mattina di giovedì al secondo turno c’è la lezione del maestro Osawa, che era nonostante l’orario comunque affollata, ho potuto lavorare di nuovo con Shanat. Il pomeriggio invece ho avuto l’opportunità di studiare con il maestro Kobayashi, uno tra gli insegnanti maggiori attualmente in forza all’hombu, la lezione mi è piaciuta molto anche se ho avuto qualche difficoltà con il primo compagno di pratica, un gigante bulgaro che ha sovrastimato le mie capacità elastiche su tenchinage. Mi sentivo un po’ come l’osso dello sterno del pollo quando si fa il gioco di “esprimi un desiderio”, quale braccio si stacca dal torso? Il maestro Kobayashi è in grado di esprimere un movimento esplosivo generando una piccola onda che parte dalle anche, sono quelle cose che anche quando le riesci a vedere dovresti esercitarle migliaia di volte per conto tuo per replicarle, e poi altre migliaia di volte nello stress generato da uke. Venerdì è stata una giornata intensa, alzata all’alba per frequentare la lezione del Doshu delle 6 e 30. Mi sono trovato come uke uno degli “anziani” del dojo, il signor Nishino, ci ho lavorato con piacere, ad un buon ritmo, con molta disponibilità da parte sua nel ricevere le tecniche, e moltissima da parte mie nel ricevere le sue correzioni su alcuni punti. Trovare un buon compagno è molto importante all’ora del Doshu perché le spiegazioni sono brevissime, la forma tecnica spogliata ad una tale essenzialità da essere ai limiti dell’invisibile, quindi se non trovi un senpai che ti faccia da tramite ne ricavi davvero poco, insomma mi ritengo fortunato finora. La seconda ora un’altra lezione con il maestro Irie, che ho trovato di nuovo molto tranquillo, non so dirvi se è perché il maestro sembra avere dei problemi all’anca o parte bassa della schiena in questo momento. Ho avuto modo di praticare con Craig un sudafricano che avevo incontrato a Saku e che mi aveva stupito durante l’embukai, abbiamo lavorato molto bene insieme e davvero mi è rimasto il rammarico di non averlo incontrato sul tatami durante il seminario di Endosensei, ne avrei tratto molto profitto. Mi ha confermato che la sera del venerdì il maestro Endo insegna a Tokyo e quindi ho avuto l’occasione di seguire ancora una lezione con il maestro, anche se questo vuol dire perdere le lezioni serali dell’honbu, in particolare quella di Miyamotosensei, ma in questo momento ho delle priorità molto chiare. Prima però dovevo riuscire a partecipare alla lezione del maestro Seki alle 15, che la prima volta in Giappone ho perso perché si trovava all’estero, da quello che avevo visto ero curiosissimo di questo terrificante movimento a frusta che genera su ikkyō, beh non sono stato deluso. Il maestro ha spiegato molto, almeno per i canoni del luogo, ha posto molto l’attenzione su yokomenuchi e sul mantenere il centro mentre si porta il colpo, ponendo molta attenzione alla reattività di uke, un bel lavoro che mi ha lasciato soddisfatto nonostante il prezzo da pagare in termini di affaticamento. Subito dopo una corsa a casa per la doccia e il cambio keikogi e via fino al Koutoku Aikidō dojo per la lezione di  Endosensei che è stata confermata. Sul tatami ho ritrovato Suzukisan che ora vive in Olanda e ritrovo ai seminari del maestro in giro per l’Europa, non eravamo moltissimi, o almeno non tanti come si può essere ad un seminario e questo ha permesso al maestro di lavorare con tutti. C’è stata anche una spiegazione molto bella in cui il maestro ha ampliato un tema accennato anche a a Saku. Ovvero la necessità di non confondere l’essere capaci di adattarsi ad ogni condizione, e qui il maestro cita spesso una frase di Osensei che adattata suona come “ci sono mille risposte diverse per mille condizioni diverse”, con il fare continuamente tecniche diverse. A volte è importante anche lavorare una sola tecnica mille volte fino a diventare capaci di usarla naturalmente in qualunque momento, a comprenderne profondamente il timing corretto per l’applicazione e poi diventeranno due tecniche, poi tre e così via. Un’altra buona notizia è stata scoprire che sabato ci sarà un seminario di Arigasensei a Tokyo, ma vi rimando alla prossima puntata, i giorni 11 e 12. Per oggi con quattro ore e mezza di pratica è giunto il momento di riposare.

Giappone 2.0 e Aikidō: giorno 7 e 8

Dalla nostra base ad Akebonobashi in poco tempo abbiamo raggiunto la zona di wakamatsu ed oggi abbiamo cominciato la pratica all’hombu dojo, e ammetto che fa sempre un po’ impressione trovarsi in questo posto. Qui dal fondatore in poi si sono avvicendati tanti insegnanti che hanno dedicato tutta la vita all’Aikidō, ed anche tanti studenti. Ognuno di loro ha inseguito un’idea, ha cercato di imparare in questo posto, ha condiviso la sua pratica e anche se in parte minima ha influenzato gli altri. E quando salgo sul tatami ho l’impressione di sentire tutto questo, che anche un gesto per molti banale è stato provato e riprovato da migliaia di persone prima di me, che alcune vi hanno trovato un significato profondo, l’hanno esplorato in ogni modo ed altre magari l’hanno ignorato preferendone altri. Per questo salgo con l’emozione e la responsabilità di voler riuscire a vedere ogni cosa, ad assaporare tutto, a sprecare meno tempo possibile costi quel che costi. La mattina abbiamo cominciato con il maestro Yasuno, che ci ha proposto una lezione con una specie di scaletta invertita, katatetori jiyuwaza per i primi 40 minuti, alternando variazioni di iriminage, kokyūnage, shihōnage, kotegaeshi, illustrandole prima tutte insieme e ripetendole ogni tot, lasciandoci cambiare partner un paio di volte. Alla fine invece abbiamo lavorato su tecniche singole, in modo più strutturato. Una lezione molto bella e anche molto frequentata dove ho avuto la fortuna di praticare con gente esperta e dove dato che ci si alternava metà tatami per volta ho potuto guardare le tecniche di altri allievi esperti, tra cui il maestro Hito. Nella pausa prima della lezione serale siamo andati a zonzo fino al palazzo governativo di Shinjuku, ma abbiamo trovato l’osservatorio chiuso, una rifocillata al ristorante di una catena che fa spaghetti all’italiana che si chiama al dente e poi un salto a Shibuya, dove si trovano il famoso incrocio e la statua dedicata al cane Hachiko. Un po’ di riposo e via di nuovo sul tatami per la lezione di due ore del maestro Osawa. Mi ha fatto piacere riuscire a seguire il maestro anche nell’istruzione in giapponese, sentirlo sottolineare gli stessi elementi fondamentali presentati anche in Italia, e riscoprire il suo essere gentile ma anche molto fermo nel lavoro richiesto ai praticanti. Mi colpisce sempre il ritmo che riesce ad imprimere alla lezione, l’alternanza di tecniche, di bloccaggio e proiezione, che tengono il ritmo sostenuto senza scadere nel frenetico. Infine una bella cena ad un locale nuovo nel quartiere ed un po’ di riposo, mercoledì mattina è il giorno del rientro per Roberto e la mia prima alzataccia per la lezione del Doshu delle 6 e 30.

Mi sono alzato alle 5 per mettere a lavare i keikogi, salutare Roberto e dirigermi al dojo. La lezione del Doshu è sempre una delle più frequentate, insieme a quella delle 19, molte persone praticano prima di andare a lavoro o appena finito. Mi ha fatto piacere ritrovare Stella, una ragazza cinese che vive a Tokyo proprio per praticare Aikidō, l’ho conosciuta a Saku. Diversamente dal solito non abbiamo cominciato da shōmenuchi ma quasi tutte tecniche da ryōtetori. Grazie a Stella ho avuto modo di ricevere una tecnica dal Doshu, ha un taisabaki molto netto, e la sensazione come uke è che puoi giusto andare dove vuole lui senza alternative. Gli ultimi 10 minuti il Doshu lascia la possibilità di praticare liberamente, e a seconda del tuo partner la pratica può diventare interessante. L’ora successiva il maestro Irie sostituiva Kuribayashi sensei, attualmente in Belgio. La lezione ha avuto un ritmo molto tranquillo e il maestro ha insistito sull’uso del kokyū nelle tecniche, ha girato molto, mi è sembrato molto attento verso tutti. Tornati a casa con Giancarlo ci siamo riposati un po’ e poi abbiamo deciso che la bellissima giornata meritava un secondo round contro l’osservatorio del Tokyo metropolitan government palace, questa volta superata la coda per l’ascensore di una decina di minuti siamo riusciti a salire al 45 piano. Una vista stupenda, ma non credo le foto siano sufficienti a rendere la bellezza della visuale , non vi si riesce a vedere il monte fuji che ad occhio nudo emergeva come un profilo chiaro oltre la foschia. Di ritorno di nuovo al dojo per una doppia lezione del maestro Miyamoto, che oltre ad essere particolarmente energetico ho trovato molto chiaro didatticamente, alternando un lavoro da katatetori gyakuhanmi ad un lavoro analogo in ryōtetori. Un lavoro che è sfociato in uno shihōnage da hanmihandachi sia in katatetori che ryōtetori. Un’altra cosa che mi ha colpito molto è stato vedere Francesco Re prendere ukemi per il maestro in più di un’occasione, l’ho trovato cresciuto moltissimo tecnicamente, e penso sia appagante vedere che una scelta coraggiosa come andare a vivere in Giappone praticando Aikidō e mantenendosi con un lavoro stia dando frutti. Come ben ricordavo il tatami dell’hombu è sempre duro come la pietra, ma sto cercando di gestirmi meglio dell’ultima volta, soprattutto nelle tecniche in suwariwaza, e al momento sembro cavarmela.

Vi lascio ricordandovi che il 25-26 maggio, tornato fresco fresco dal Giappone ci possiamo incontrare per il seminario dei maestri Bottacin e Watanabe che ospitiamo al Kikai dojo di Ostia. Spero di vedervi sul tatami, di praticare insieme e di chiacchierare il più possibile (dopo la pratica)

Giappone 2.0 e Aikidō: giorno 6

Oggi è stata una giornata di riposo “forzato” che abbiamo trascorso a gironzolare per Tokyo, un discreto allenamento visto che alla fine abbiamo marciato per una decina di kilometri. Siamo partiti da Asakusa, che avevamo visto ieri sera tardi mentre cercavamo un posto per cenare. Qui si trova il tempio di Sensoji e un enorme mercato di ninnoli e cibo per turisti stranieri e non. Ma anche alcuni negozi bellissimi che vendono statuette di porcellana,  sumi-e e stampe del fine 1800, a prezzi ovviamente esorbitanti. Una lunga passeggiata ci ha portato attraverso Akihabara, il distretto “elettronico” che abbiamo un po’ ignorato, e poi chuoin, sede della banca centrale giapponese e fino a Ginza, luogo di shopping di alta classe, in pratica solo da vedere. A Ginza ho scoperto un negozio chiamato Itoya che vende articoli di ottimo design per la casa, i viaggi, ma soprattutto ha un reparto fantastico dedicato alla carta. Salendo al settimo e all’ottavo piano vi troverete catapultati in quello che per la carta può essere paragonato ad un negozio di alta sartoria in Italia. Carta fatta a mano di qualunque foggia, spessore, filigrana e colore possiate immaginare, con articoli per timbrare, sovrimprimere, tagliare e piegare. Beh la verità è che non potete immaginarlo, perché altrimenti avremmo un negozio così anche in Italia. E questo è l’elemento che mi colpisce di più della cultura giapponese, il sentire in modo concreto che se una cosa bella può essere creata allora non ci devono essere ostacoli alla sua realizzazione. Se la potete immaginare, se credete che anche una sola persona possa sentirsi innalzata dalla sua bellezza, allora quell’idea deve essere resa concreta ed essa naturalmente raggiungerà chi la aspetta. Anche l’idea che il pratico possa essere coniugato con l’estetica affiora in tutti gli oggetti. Non voglio completare il resoconto di questa giornata senza parlarvi anche di Aikidō quindi vi riporto alcuni pensieri che è tutto il giorno che mi tornano alla mente, frutto di una piacevole chiacchierata con Tina, una signora finlandese sopra la sessantina, molto piccola di statura, che segue da molti anni il maestro Endo. Mi diceva che pratica Aikidō da più di 40 anni, e al vedere la mia espressione di apprezzamento mi ha rimbrottato: “si è bello aver praticato per più di 40 anni, però c’è un unico problema. È che sono passati 40 anni! quindi molto probabilmente ne hai più di 60!” E siccome parlavamo di un praticante che un po’ di tempo fa avevamo preso in giro perché è un po’ rigido mi ha detto: “però sai se il tuo uke diventa rigido la colpa è nostra, siamo noi (Tori) che abbiamo fatto qualcosa che lo ha irrigidito, ma non lo vogliamo ammettere. È sempre difficile quando qualcosa non funziona, vogliamo sempre dare la colpa agli altri. Però sai che servirebbe? Che proprio in quel momento, quando il tuo compagno si irrigidisce nella sua risposta, qualcuno ti portasse uno specchio per vedere realmente come sei. E alla fine quando riesci a capire, è proprio uke che diventa il tuo specchio, quando si irrigidisce devi capire che stai sbagliando, accettare e cambiare te stesso.” È una riflessione che pronunciata così, con la semplicità di un cuore aperto, ho trovato molto profonda e mi torna continuamente in mente. Vi saluto, che domani ho un bel programma di pratica di tre ore, mattina il maestro Yasuno e la sera doppia lezione del maestro Osawa.

Giappone 2.0 e Aikidō: giorno 4 e 5

Gli ultimi due giorni del seminario del maestro Endo sono stati così ricchi di emozioni che è stato difficile fermarsi per scrivere qualcosa. Il 4 maggio era previsto l’embukai, un’ora di lezione e poi il party. L’embukai era organizzato con una dimostrazione prima dei bambini del corso di Saku guidati dal maestro Ariga, poi i kyūsha, gli yudanshā, etc…Dopo un altro paio di dimostrazioni ci sono state quelle degli insegnanti stranieri, a cui ho partecipato con Roberto che mi faceva da uke, ho cercato di lavorare in modo pulito e semplice. Purtroppo la mia parte si è svolta in contemporanea con la dimostrazione di Matti e Borje, due allievi che seguono Endo da moltissimo tempo e a cui ero molto interessato. Infine l’enbu del maestro Endo, un po’ atipico rispetto alla solita esecuzione di tecniche a cui si può essere abituati in una dimostrazione. Endosensei ha cercato di illustrare il suo Aikidō, la sua condizione fisica e mentale nella pratica alternando spiegazioni e tecniche sugli uke, una sintesi di molte cose ribadite durante le lezioni del seminario, ma forse più organizzate in un discorso unico, che riascoltando ho capito meglio. E poi siamo tornati al dojo per il party, facendo l’ultimo giro in bici, guardando con calma le montagne circostanti, qualcuna ancora spruzzata di neve, i giardini curati di alcune case, i terreni scuri appena arati, assaporando l’aria di questa cittadina remota che forse sarebbe una meta del tutto sconosciuta a noi occidentali se non fosse per la presenza del maestro Endo e del maestro Ariga e di quello che hanno costruito. Il party è stato molto animato e dopo il mangiare c’è stata una seconda parte dove si sono alternate canzoni popolari e le esibizioni di Matti e Jorg, la prima un’esecuzione al piano in chiave jazz di un pezzo dei Genesis è stata stupefacente. Anche il maestro Endo ha chiuso cantando una canzone tradizionale giapponese, e infine siamo andati ancora a stare insieme ridendo e scherzando davanti ad un bicchiere. L’ultimo giorno del seminario abbiamo cominciato prima, alle 10, per un’intensa lezione di tre ore, interrotta da una breve pausa di 10 minuti. Il maestro ha proposto una serie di esercizi da hanmihandachi che richiedevano di portare uke prima a terra e poi di mantenerlo costantemente sbilanciato per impedirgli di tornare in piedi, un lavoro interessantissimo che abbiamo esplorato anche cambiando uke più volte, costretti quindi ad adattarsi allle risposte diverse di ognuno. Poi ancora in hanhandachi abbiamo eseguito shihōnage, ed un’osservazione del maestro sulla presa della mano di uke mi ha risolto una questione che mi ero sempre posto. Il che mi porta ancora ad osservare perché ci siano delle cose che una volte spiegate risultano così ovvie ma a cui non riusciamo a dare un senso da soli, bah! Abbiamo continuato lavorando in suwariwaza su Shomenuchi le tecniche fondamentali da ikkyō a yonkyō. Ed ancora il maestro è tornato a sottolineare che quando si lavora in katageiko, nella sicurezza dei movimenti che seguono una determinata sequenza, e di un uke che reagisce esattamente come vogliamo, abbiamo il dovere di rivolgere la nostra attenzione al nostro interno, cercando morbidezza, flessibilità e libertà. Poi abbiamo concluso con un jiyuwaza da Shomenuchi, dove ho avuto la fortuna di lavorare con il maestro Ariga e di confrontarmi con la sua energia infinita, posso solo dire che ho imparato moltissimo. La lezione si è conclusa con un bellissimo discorso del maestro, pieno di gratitudine per chi ha organizzato e reso possibile un seminario così bello, un discorso anche profondamente filosofico sull’utopia che si realizza di momento in momento quando gli esseri umani si ritrovano insieme in fratellanza ed armonia. Il suo invito a tornare a casa ed ad impegnarci per realizzare un’utopia simile a nostra volta è stato molto toccante, e per me che ho avuto la fortuna di lavorare ancora una volta in questa lezione con i suoi allievi diretti la valenza di un invito quasi personale. Infine siamo scappati un’ultima volta alle onsen, oltre che per ristorarsi per poter affrontare il viaggio a Tokyo da persone civili. Lunedì sarà ancora giornata di festa, perché qui le feste nazionali che cadono nei festivi scalano al giorno dopo, e potremo dedicarci a visitare un po’ di Tokyo. È davvero difficile esprimere la gratitudine che ho provato e provo per il maestro Endo e il maestro Ariga in questo momento, l’unica cosa che posso fare è invitarvi a non perdere tempo e ad organizzarvi per poter condividere anche voi quest’esperienza che vi toccherà profondamente.

Giappone 2.0 e Aikidō: giorno 3

Il terzo giorno ad orario pieno si è concluso, molta fatica ma anche il piacere di aver praticato e lavorato molto. La cosa che mi ha colpito di più oggi sono le donne con cui ho praticato. Diverse universitarie ed anche qualche signora più grande, e tutte in grado di gestire sul piano tecnico e della connessione la pratica senza problemi. Forse questa è una delle qualità che mi piace di più della pratica definita “soft” del maestro Endo. Ponendo l’attenzione sulla connessione tra i due praticanti la maggior parte delle volte anche il “confronto agonistico” si pone di più sul sentire dove è possibile portare uke nello squilibrio che non sul chi è più forte. Certo capita sempre qualche praticante più “resistente”, soprattutto tra gli uomini di una certa età, però diventa un esercizio per noi stessi a non entrare in una mentalità competitiva. Il maestro ha continuato a lavorare molto su katateryotetori, Shomenuchi e Ushirowaza ryotetori, sottolineando sempre la connessione che si crea nello stesso modo quando uke cerca di sollevare le braccia e Tori le distende naturalmente verso terra. Sono riuscito a vedere un collegamento che il maestro ha sottolineato tra le sua forma di nikyō omote e kaitennage, e a cogliere il timing del momento di applicazione sul “rimbalzo” di uke, è stato quasi un caso ma sono riuscito a registrarlo. Dopo la lezione un altro giro alle onsen, perché l’effetto sui muscoli è stato molto buono, quindi ripetiamo volentieri. Tornando con un po’ di calma in bici ho avuto modo di guardare il paesaggio e sembra davvero una zona molto bella, all’orizzonte si levano in cielo delle mongolfiere per un festival che si terrà il 5 maggio, le montagne, e ancora qualche ciliegio in fiore. Domani orario ridotto, dalle 13 alle 15 si terrà un enbu, e poi un’ora di pratica dalle 15 all 16. Non so se faremo in tempo a fare un altro giro alle terme perché alle 18 ci sarà il party e i preparativi in dojo vanno avanti da giorni.

Giappone 2.0 e Aikidō: giorno 2

Oggi è stata una giornata di pratica intensa e la fatica comincia a farsi sentire, soprattutto nelle gambe. I primi tre giorni del seminario l’orario delle lezioni va dalle 11 alle 15, quattro ore di pratica intervallate da una breve pausa di trenta minuti. Il bel tempo ci ha permesso di andare in bici dal dojo fino al Budō hall di Saku, un buon riscaldamento in pratica. Avvicinandosi il fine settimana si è vista parecchia gente in più sul tatami, e infatti anche al dojo la sera i futon coprono ogni centimetro quadrato del tatami. Il maestro è tornato a chiederci cosa sentiamo quando eseguiamo la tecnica, ha sottolineato la necessità di non focalizzarsi sul far cadere il partner e a concentrarci invece sul muoversi liberamente. Quando riusciamo a muoverci liberamente, restando connessi con uke avverrà naturalmente ad un certo punto uno squilibrio tale che uke cada. Se il nostro kimochi, la nostra sensazione interiore non è piacevole non saremo in grado di muoverci liberamente. Per esempio nella pratica del suburi di Shomenuchi riusciamo a muoverci bene, ma nel momento in cui lavoriamo in coppie subito la foga di colpire cancella la sensazione piacevole precedente. Endo sensei ci tiene a sottolineare di aver ripetuto queste cose svariate volte, ed anche la pratica tecnica è tornata sugli stessi elementi ma da diversi approcci, in Ushirowaza, Shomenuchi e katateryotetori. Dopo l’allenamento siamo andati a goderci le onsen, i bagni termali, nella speranza che l’alternanza vasche fredde e calde aiutasse la circolazione e il recupero dall’affaticamento muscolare, comunque siamo usciti morbidi come delle meduse, speriamo che aiuti. La sera dopo cena nella sala antistante la cucina si sta insieme a scambiare chiacchiere e a conoscere meglio chi magari abbiamo incontrato per la prima volta sul tatami. si raccontano i viaggi e le esperienze che si sono accumulate. E poi via a dormire per un meritato riposo.

Giappone 2.0 e Aikidō: giorno 1

Ci siamo svegliati presto e dopo un giro veloce sullo Shinkansen che va in direzione Chiba, scendiamo a Sakudaira la stazione di Saku, città natale del maestro Endo. Qui i primi cinque giorni di Maggio e gli ultimi di Agosto si tiene un seminario intensivo guidato da Endosensei.

Il paesaggio ed il clima sono molto diversi, ci troviamo nel centro del Giappone e la primavera fa un po’ di fatica ad arrivare, delle belle catene montuose caratterizzano i dintorni. A Saku si trova il dojo aperto dal maestro Endo ed ora custodito e guidato da un suo allievo Arigasensei. Siamo troppi per poter praticare nel dojo, quindi le lezioni si tengono nel Budōkan di Saku (il locale palazzetto per le arti marziali) ma il dojo resta il cuore di tutte le attività che non si svolgono sul tatami. Si può essere ospitati e dormire con il futon sul tatami, cenare tutti insieme avendo collaborato alla preparazione del pasto, e trascorrere la serata scambiandosi opinione e conoscendo nuove persone. Fa un po’ impressione vedere l’organizzazione messa in piedi da Arigasensei, che pure restando il chiaro timoniere riesce ad essere vicino a tutti.

La lezione del maestro Endo è chiara, e si apre con un discorso che sottolinea non tanto cosa sia l’Aikidō ma perché e come dobbiamo praticarlo. Porre la propria attenzione a come possiamo far funzionare il corpo, al perché ci comportiamo in un certo modo, al creare una connessione con il partner e al perché questi ci risponde in una determinata maniera, liberandosi dalla voglia di sopraffare e proiettare, è al centro dell’insegnamento del maestro. Senza considerare poi il valore aggiunto di poter praticare con i suoi ottimi studenti che finora avevi solo ammirato nei video delle sue dimostrazioni, Arigasensei, Shimizusensei, Oiwa sensei, ti costringono a lavorare restando presente al 100%.

Giappone e Aikidō 2.0: il lungo giorno 0


Questa volta sono tornato in Giappone scommettendo su una stagione ed un clima nettamente migliori. La mia prima esperienza a Tokyo gli ultimi giorni di agosto era stata ai limiti dell’insostenibile. Dopo un luglio a riposo forzato, il caldo sostenuto e l’umidità altissima, la pratica all’hombu dojo era stata molto difficoltosa, e meno godibile di quanto avessi sperato. Questa volta ho puntato alla fine di aprile e prima metà del mese di maggio, unici inconvenienti evitare il fermo delle attività legato alla golden week e il sovraffollamento dell’hombu dovuto al richiamo dell’imminente All Japan Demonstration. Quindi con un quasi perfetto incastro, si è partiti il 27 aprile per godersi tre giorni a Kyoto da turisti (sono accompagnato da Roberto e Giancarlo), purtroppo il dojo di Okamotosensei era chiuso, e poi spostarsi dall’1 al 5 a Saku per lo stage di Endosensei. Dal 6 a Tokyo per altri 9 giorni di pratica all’hombu dojo fino al rientro in Italia del 15, tenendosi lontani dall’All Japan enbu del 27.
I tre giorni a Kyoto sono stati magnifici ed impegnativi. Rivedere il Kiyomizudera (il tempio con una stupenda terrazza che si affaccia sul fianco della montagna e offre una vista bellissima), il Kinkakuji (noto come il padiglione d’oro), i bellissimi giardini Zen di pietra dei templi Daiseiin e Zuihouin nel complesso del Daitokuji e del Ryoanji, e la natura racchiusa nel tempio del Ginkakuji, è stata un’esperienza bellissima e profonda. Arricchita dalle osservazioni di Roberto, bonsaista amatoriale, su come vengano curate alberi e piante in questi giardini apparentemente naturali ma armoniosamente controllati dall’uomo. Domani mattina si parte presto per Saku, vicino Nagano e dalle 11 tutte le nostre energie saranno spese sul tatami sotto la guida del maestro Endo.
Vi tengo aggiornati
Ciao Marco

Il metodo nell’Aikidō

La mia idea di pratica secondo un metodo nell’Aikidō è stata profondamente influenzata dall’incontro con il maestro Fujimoto e la sua didattica. Ho cominciato a praticare nel 1995 e nel ‘99-2000 ho frequentato il mio primo stage con il maestro Fujimoto, il mio insegnante di allora spingeva molto perché mi avvicinassi al suo lavoro, ma sinceramente, da quelle poche occasioni di un fine settimana, non restai molto impressionato, dal punto di vista dell’eccezionalità tecnica ero molto più sorpreso dal maestro Hosokawa. Poi nel 2001 per sostenere l’esame di shodan frequentai i 5 giorni dello stage di fine dicembre a Milano e per me si aprì un mondo. Il maestro Fujimoto in nove lezioni dispiegò un sistema tecnico estremamente chiaro, e soprattutto organizzato. Le tecniche venivano costruite in modo progressivo dagli attacchi più di base a quelli più elaborati, imperniate su dei movimenti fondamentali del corpo che si ripetevano nella stessa tecnica. Un movimento caratterizzava le forme omote, oppure la conclusione di tutte le tecniche di proiezione, un altro movimento le forme ura. Le forme di nikyō, sankyō, yonkyō potevano essere tutte costruite sulla base di ikkyō e questo a sua volta essere caratterizzato dall’iniziare da un rapporto aihanmi o gyakuhanmi delle posizioni reciproche. Il maestro aveva impostato una struttura ben organizzata di tecniche caratterizzata da movimenti ricorrenti e da dettagli e variazioni che si aggiungevano nella progressione, ma questo era solo il 50% del valore del suo lavoro. L’altra qualità del maestro era come veniva presentata la sua organizzazione tecnica, in ogni seminario il maestro seguiva un filo logico, impostandolo su un movimento od un uscita specifica, presentandola e sviluppandola, poi lasciandola per impostare un secondo lavoro particolare e infine riprendendola intrecciando insieme i due lavori. Questo modo di presentare un aspetto specifico di tutta la struttura dava una grande fluidità al lavoro svolto sul tatami, e ci si trovava a partire da un katatetori aihanmi e a finire in munetori menuchi anche se il gruppo di praticanti era molto eterogeneo nel grado e nelle capacità. Inoltre anche lavori soggetti ad essere ripetuti più volte venivano presentati sotto una luce differente in modo da restare sempre interessanti. Queste qualità diventavano manifeste sui tatami di Milano e Laces, in particolare proprio nell’Aikidō dei partecipanti allo stage. Potevi lavorare con dieci persone differenti in una lezione e riuscire a partire da un linguaggio comune con tutte e dieci, e all’interno di questo linguaggio concentrarti sulla particolare espressione proposta in quel momento. Avere un “sistema” non vuol dire però creare una struttura granitica, soggetta alla ripetizione e alla monotonia. Il maestro Fujimoto nei suoi quasi 40 e passa anni di insegnamento ha conosciuto una costante evoluzione tecnica, e a mio parere strettamente personale specialmente negli ultimi 10 anni questa evoluzione aveva una profonda connotazione didattica. Le tecniche del sesto e quinto kyū venivano a modificarsi per creare una base ed introduzione a tecniche molto più complesse che le avrebbero riprese più avanti, tecniche avanzate venivano semplificate per presentare solo le differenze necessarie rispetto ai moduli di base.
I quattro elementi che caratterizzavano il metodo del maestro in sintesi erano: struttura organizzata e logica delle tecniche, capacità di presentare tale organizzazione sottolineando un particolare filo logico, costruire una comunità che condivide un linguaggio universale, revisionare il lavoro tecnico evolvendolo in senso pratico e funzionale.
Questi elementi secondo me non connotano esclusivamente il lavoro del maestro Fujimoto ma caratterizzano un vero approccio moderno nel metodo ad una disciplina di natura tradizionale.
Il mio desiderio è che l’Aikidō che perseguo, degli insegnanti che prendo come riferimento, e che condivido con i miei amici ed allievi rispetti i requisiti di questo metodo.
Potrebbe interessarvi una serie di appunti che sto raccogliendo in questa sezione del sito.

To lose or to win by a real sword

Shinkenshōbu
真剣勝負

The word by word translation of theese japanese four kanji is: real-sword-victory-defeat, put simply to win or to lose by a real sword. Real sword means a blade that can actually cut, not just a iaito (a replica of a sword with no cutting edge that is used in training kenjutsu), a sword that can strike a fatal blow. The meaning of this saying is “fighting for your life (or death)”, and it implies the danger is so great that in the end you can loose your life for real, no playing, be aware and act accordingly.
Osensei wrote that in true Budō, and Aikidō is the ultimate manifestation of Budō, there is no kind of competition, above all no sportlike competition, because of its true nature which is shinkenshōbu.
Any kind of sport contest, even the more gory ones like some mma fighting, must obey to some rules so that to have at least some kind safety standard, this way the lives of the contestants are guaranteed. But this thinking is just the opposite of shinkenshōbu. The wide of this gap is properly true to me, but for the people who trains any kind of martial sport, or shallowly dip in the self defence study, there’s not such clear understanding.
Shinkenshōbu means that any action is allowed, it has only to be weighted on the scale of reaching life and escaping death, it doesn’t have to answer to a set of established rules or any kind of referee ruling. A sportlike contest has no common ground with this way of thinking, and according to Osensei doesn’t belong to the Budō sphere, or to the so often ill-labelled martial arts.
The fans and the ones practicing fighting sports believe that this kind of contest is the most truly realistic, the violence showing, the strenuous effort needed, the high percentage of serious damage may be true but if first of all you are preventing any chance of dying, or you are trying to prevent it, what is the true nature of this kind of contest? If you fight to survive, but remove any chance of dying, you are just playing a game, dangerous, violent, bloody but still nothing more of a game.
I’ll try giving some evidence of this, let’s look at strikes to the back. There’s no fighting sports where striking the back of the head or neck from the back is allowed. If you wilfully strike at the nape you’ll get immediately disqualified. Because of this, techniques of leg swiping and fight to the ground are getting such relevance. But, when a fighter dives trying leg swiping with both his arms, he really exposes his neck to a permanently disabling elbow strike. An elbow strike of this kind is not allowed, it’s too dangerous, and leg swiping must be stopped with techniques that are not so effective, so that leg swiping and ground fighting are at such a high popularity.
Always because of a permanent disabling effect eye gouging, trachea grabbing, striking to testicles, finger locks, and many others moves are not allowed. Because of this to build a muscle armour in fighting sport has such importance, and brought forward weight classes and such nonsense. In what kind of fighting, that wishes to have a realistic approach, can exist weight classes? Can you imagine warrior asking to each other how many kilos is their weight on a battle ground? Nature is true evidence that such way of discrimination in fighting for survival has no meaning, the opposite is true.
I’m not pushing forward the idea that Aikidō is more realistic than fighting sports, it has its own flawed way of translating reality to a schematic pattern, with his striking molded on vectors, his absorbing techniques and continuous pressure that are expression of a dilated time perception that goes with study in sensitivity. But I think that his adhering to the shinkenshōbu principle is something which get always neglected by people of fighting sports.
Every technique of Aikidō happens when uke, the one who attacks, is able to survive the most immediate counterattack: atemi, the striking to vulnerable spot of the body, and the no turning back unbalancing of a kokyūnage. If uke goes quite unscathed over this answer Tori will have to exercise his control using a waza, an Aikidō technique.
A deep understanding of this may happen if we look at the kind of fighting that was taking place on the battleground of past wars, with the protection of heavy armours one was quite immune to empty handed strikes, and tried to avoid at all cost to fall to the ground in the middle of a melee, he would rather try moving from an unbalanced condition to the next to get back his grounding.
The shinkenshōbu principle, in Aikidō, allows strikes of any kind, no limitations at all, and “fighters” takes this in account. If you are an Aikidōka, and you let yourself be touched on your face, quarrelling whether the strike was strong enough to knock us out or not is meaningless, you must be aware that you could have lost your sight and got unable to go on. No referee is giving you a break if you let your nuts be stricken. No one is getting disqualified if he is so good to strike on your back. Because of this a really different way to answer to strikes and menaces comes forward. Awareness of not exposing your body in any way will have you choose unbalanced movement over any kind of parring or closed guard. To defend your central line and axis is the first product of this way of thinking, and if you cannot embrace this way of looking at a fight you have no chance of understanding.
If you truly would like to understand the course of action, and reaction, of an Aikidōka try visualising your enemy armed with a long and sharp knife, how much strength is needed in one blow to cut an artery?
See, we are back to shinkenshōbu, fighting with a real sword.
When you look at Budō the same way you look at sport fighting you are prey to the same mistake again and again, the method of learning, exercising follows a different path, which is not in any way equivalent.
Just for sport let’s try pretending being Usain Bolt, the fastest man on earth. You are able to move in a highly organised way, efficient and perfectly harmonious in a specific setting like a track. If someone showed you a video of an Eskimo, walking in his snowshoes, swaying like a penguin, would you be able to consider the effect of the snow on movement? Are you able to differentiate between the game of running on a track and having to move surviving in harsh conditions?
In Aikidō both Tori and Uke must answer the shinkenshōbu principle. Tori must evade the first strike and allow for musubi, the connection, to happen. There he can perceive clearly the center and central axis of Uke, so that he can exercise his control all along the execution of the technique to the end without giving up new openings to the blade of the attacker. Uke, after trying his first sincere strike, must keep on being aggressive in his connection, always being aware as much as possible to avoid any immediate sanctions.
This word “connection” frequently used in Aikidō is equivalent to being aware on many different levels, body, will, mind, breath and so on. If you cannot grasp the underlying of shinkenshōbu you’ll be just the same as someone looking the erratic movement of a man without knowing he is a prey to a sniper.
Shinkenshōbu way of thinking gives our daily practice a deeper meaning, it’s the fertile soil to a spiritual tension, it asks for absolute concentration, takes away anything that doesn’t belong to the moment and brings you to the present. This way the daily training of Aikidō is no more a playful practice, silence comes to you, and you have no way to keep pretending to be the someoneelse that you show in the face of society, you are your true self.